Il grande cuore di Gatsby e il vero volto del sogno americano degli anni Venti

A cura di Alexia Altieri

Il grande Gatsby di Baz Luhrmann si annovera come quarto remake cinematografico dell’amaro e ispirato capolavoro nato dalla penna di Francis Scott Fitzgerald, dopo una prima trasposizione, muta e ormai andata persa, la versione del 1949 di Elliot Nugent e quella del 1974 sceneggiata da Francis Ford Coppola, con Robert Redford e Mia Farrow.
Nick Carraway (Tobey Maguire) è la voce narrante – una voce pregna della cruda disillusione che riempie le pagine del romanzo di Fitzgerald – e la storia di Mr. Gatsby s’installa nel racconto che l’indolente scrittore fa al suo terapeuta, dell’ingombrante ricordo dell’esistenza altisonante del suo facoltoso e misterioso amico.

Nonostante la cornice psicoanalitica, la storia de Il grande Gatsby possiede i contorni fumosi e iridescenti di un sogno, e questo ci appare chiaro fin dai titoli di testa: un faro proietta una vivida luce verde sulla costa di Long Island; il suo sguardo si muove costantemente tra le due rive della baia – quella abitata da lusso, dissipazione e corruzione, e quella opposta, dove alloggia il giovane romanziere Carraway, il cui ruolo nella vicenda rimane inevitabilmente ancorato all’essere un mero spettatore.

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Blow Up: L’arte si arrende alla finzione sullo sfondo della Swinging London

A cura di Alexia Altieri

Blow up di Michelangelo Antonioni è un’opera articolata sulla dicotomia tra realtà e finzione. Un film neorealista che fa del voyeurismo il suo punto cardine e trova nel mezzo fotografico la sua più grande espressione. David Hemmings interpreta Thomas, il fotoreporter di moda al centro dell’intreccio costruito ad arte da Antonioni e reso suggestivo dalla sofisticata fotografia di Carlo Palma. In realtà, Thomas non è altro che un fantoccio, un “mezzo” attraverso cui la macchina fotografica – protesi dello sguardo – esprime la propria egemonia.
Il personaggio di Thomas presenta tracce autobiografiche del regista stesso, il quale ha un passato da documentarista; a questo proposito, Antonioni ci pone di fronte alla contrapposizione tra il cinema esplicativo – volto all’interpretazione del reale – e quello, appunto, documentaristico che privilegia la pura registrazione dei fatti.
Il film, ispirato ad un racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar, ci racconta la storia di Thomas, l’affascinante e un po’ cinico fotografo di moda, annoiato dalla vita mondana e in cerca di ispirazione. Un giorno, in un parco dell’East End, riprende furtivamente le effusioni di due amanti: sarà proprio questo episodio a generare in lui una sorta di ossessione ontologica per la realtà. 

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Grand Budapest Hotel – L’eco delle favole di Wes Anderson

A cura di Alexia Altieri

Il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson gode della singolare magnificenza della fantasia del suo autore. Anderson, a cui è stato attribuito il titolo di “magnifico arredatore di interni”, ha dato vita ad una commedia eccentrica al punto da sembrare surreale – uno sgargiante caleidoscopio di situazioni e personaggi, in cui il senso rimane sospeso, insieme al tempo. Sono principalmente quattro i piani temporali entro cui si articola la vicenda – quattro epoche che si riversano l’una nell’altra, secondo un articolata struttura a scatole cinesi, ed ognuna di queste epoche è palesata allo spettatore attraverso l’uso de formato cinematografico tipico di quegli anni. Il racconto si apre sull’oggi, su una statua mortuaria stagliata contro uno scenario lugubre, al centro dello spazio dell’assenza – Wes ci mostra già l’epilogo, quel retrogusto amaro che permea e sporca il tono patinato ed infantile di tutto il racconto. L’oggi è quel che rimane dello scrittore che, nella scena successiva, vediamo ormai anziano (Tom Wilkinson), ricordare e raccontare un momento topico della propria vita. L’onda di questo ricordo ci travolge, e ci scaraventa indietro nel tempo, fino agli anni Sessanta – in cui il Grand Budapest Hotel, dallo stile architettonico di forte ispirazione sovietica, si fa simulacro della decadenza, offeso dalle ingiurie del nazismo e dal tocco mortuario della guerra che è passata e ha cancellato tutto il fasto della Belle Epoque 

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I dilettanti costruirono l’Arca, i professionisti il Titanic

A cura di Alexia Altieri

Titanic (James Cameron, 1997) è il ricalco con carta da lucido di una delle più grandi tragedie di tutti i tempi. Cameron, attraverso il racconto dell’anziana superstite Rose DeWitt Bukater (Gloria Stuart) ci narra, con gentilezza e rispetto, la storia che ha segnato la fine di un’epoca. Costruito nel 1909 dalla White Star Line, il mastodontico transatlantico RMS Titanic si fece vessillo della grandiosità e magnificenza della tecnologia moderna. Quello che era considerato un titano “inaffondabile”, emblema di grandezza e potenza divina, diventò inaspettatamente simbolo dell’inevitabile vulnerabilità dell’uomo al cospetto della natura. Un’opera mastodontica, dai numeri da record: con un peso di circa 46.000 tonnellate ed una lunghezza di circa 270 metri per circa 53 metri d’altezza, era il più grande e lussuoso transatlantico del mondo.
Un progetto ambizioso, forse troppo, che segnava – a suo modo – ancor di più la netta demarcazione che divideva e qualificava gli uomini non in quanto tali, ma piuttosto sulla base della loro appartenenza a diverse classi sociali. La ricchezza era uno dei capisaldi della Belle Époque: tutto risplendeva di ottimismo e riluceva dell’oro massiccio che agghindava i collier delle appartenenti all’aplomb borghese, ed il futuro profumava di innovazione tecnologica e onnipotenza.

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Il mondo della moda secondo Il Diavolo veste Prada

A cura di Alexia Altieri

Un vero inferno, il mondo della moda visto attraverso la lente d’ingrandimento di David Frankel, nel suo The Devil Wears Prada (Il diavolo veste Prada, 2006). Il diavolo in questione, con tanto di tacchi a spillo ed un elegante cappotto abbinato ad una, sempre diversa, borsa firmata per ogni occasione, è Miranda Priestly: superba interpretazione di Meryl Streep, ispirata all’iconica direttrice di Vogue America, la più autorevole rivista di moda in tutto il mondo, Mrs. Anna Wintour.  
Severo caschetto color miele, perfettamente squadrato – da cui Johnny Depp sostiene di aver tratto ispirazione per l’interpretazione dell’enigmatico cioccolatiere Willy Wonka, in Charlie and the Chocolate Factory (La Fabbrica di Cioccolato, Tim Burton, 2005) – ed ancora, grandi occhiali da sole rigorosamente griffati Chanel, con lenti scure per garantire un netto distacco dal mondo circostante, cardigan drappeggiato su abito Prada: questa la divisa da lavoro della lady di ferro che ha fatto della propria immagine e personalità un intramontabile simbolo glamour.

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Orgoglio ed Amore all’epoca di Jane Austen

A cura di Alexia Altieri

Orgoglio e Pregiudizio (2005, Pride & Prejudice), diretto da Joe Wright, rappresenta l’ennesimo adattamento del celebre e omonimo romanzo di Jane Austen, del 1813. Jane Austen, nata il 16 dicembre del 1775 nell’Hampshire, è la scrittrice di romanzi celebri in tutto il mondo per la loro capacità di evocare precise immagini dalla grana antica, dell’Inghilterra di quel secolo, e di esprimere i tormenti e le speranze delle loro protagoniste. Joe Wright racconta – tra continui virtuosismi di macchina – la storia delle cinque sorelle Bennet, ragazze in età da marito, umili protagoniste della vita bucolica inglese del ‘700. La primogenita è Jane (interpretata da Rosamunde Pike), di una bellezza delicata e la cui gentilezza e bontà faranno innamorare perdutamente il ricco gentiluomo Charles Bingley (Simon Woods). La secondogenita è Elizabeth (Keira Knightley), brillante protagonista del romanzo, impertinente e orgogliosa, profondamente innamorata di Fitzwilliam Darcy (Matthew MacFadyen) – di un amore folle al quale, alla fine, è costretta a cedere. Mary (Talulah Riley), studiosa e saccente, Catherine detta Kitty (Carey Mulligan), immatura e suggestionabile, succube di Lydia (Jena Malone), l’ultima delle sorelle Bennet, estremamente viziata ed immatura.

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