Peter Pan: un mito senza età

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Peter Pan – Walt Disney Pictures

Il mito di Peter Pan è senza età per antonomasia – non appare mai obsoleto al grande pubblico e il suo fascino resiste al tempo. Tuttavia, è ormai un dato di fatto che ogni sua trasposizione cinematografica non rende giustizia al gioiello letterario originale.
Il suo autore, James Matthew Barrie ha messo così tanto di sé e della propria storia tra quelle pagine che ogni altra versione o revisione appare inevitabilmente impersonale.

Peter Pan non è solo entertainment – ed è forse questo l’errore commesso dai registi che hanno preso in prestito la parabola del bambino che non voleva crescere e l’hanno resa un concerto di effetti speciali e ritmo; ci racconta soprattutto l’intimità del suo autore, i suoi drammi infantili, l’opprimente solitudine alimentata dal bisogno di calore materno e l’incontro fortunato con i piccoli fratelli Llewelyn Davies, tra i romantici sentieri dei Giardini di Kensington.

Peter è David, il fratello di Barrie che non diventò mai Adulto, morto prematuramente in un incidente sulla pista di pattinaggio sul ghiaccio. David era il figlio prediletto e quando morì la madre si chiuse in un dolore solitario, silenzioso e totalizzante – un silenzio che gridava a Barrie che non avrebbe mai preso il posto che il fratellino aveva nel suo cuore. Per un periodo il piccolo Barrie prese in prestito l’identità del fratello, indossando i suoi vestiti e assumendo le sue movenze. È facile, quindi, intuire la centralità del “rifiuto materno” nella favola di Peter Pan: sull’Isola che non c’è, i bambini sono tutti orfani e tutti i personaggi (compreso Capitan Uncino e la sua ciurma di pirati) conservano l’intimo desiderio di avere qualcuno che gli faccia da madre – figura che si esplicita nella premurosa Wendy.
L’ossessiva ricerca di una figura materna è il tema centrale della storia. Barrie provava per la madre una profonda devozione: le dedicò anche una sentita biografia, Margaret Ogilvy (1896). In un passo del libro, l’autore scrive:

“L’orrore della mia infanzia fu che io sapevo sarebbe arrivato un momento in cui avrei dovuto anch’io abbandonare i giochi, ma non sapevo come fare […] Niente di ciò che accade dopo i dodici anni importa davvero”.

L’autore è il primo tra i Bambini Sperduti.

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La morte è un altro tema forte che la favola di Peter Pan tocca e romanza: tutti i bambini caduti dalle proprie carrozzine, che non vengono reclamati per una settimana, giungono a Neverland. Le loro anime, come quella del fratellino David, sono destinate a rimanere cristallizzate per sempre nella sfera protetta dell’infanzia, senza mai venir contaminati dal divenire adulti.
Anche per Barrie è lo stesso, poiché la sua parte adulta non è riuscita a compiersi, ma “è rimasta incatenata al dolore dell’infanzia”.

Il primo maggio del 1912 venne presentata la statua dedicata a Peter Pan, realizzata da George Frampton, all’interno dei Giardini di Kensington – Barrie commentò: “Non vi traspare il demone che è in Peter”.

437080380_8e83cb62bfUn demone che la maggior parte delle rivisitazioni, prima fra tutte quella animata dalla Walt Disney Pictures, esorcizza attraverso il ritratto innocente dell’eterno bambino che porta con sé orde di suoi coetanei nel giocoso microcosmo.
Arrivarci è relativamente facile: seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino. L’isola che non c’è è raggiungibile solo da quei bambini che si rifiutano di crescere – un luogo ideale, utopico che non può nascere se non dall’incontaminata immaginazione infantile. Barrie s’ispira a un distretto australiano – Niever, Niever, Land – per il nome, e pennella un’isola colorata affollata da pirati, pellerossa, sirene, fate, gnomi e da un temibile coccodrillo. È un luogo pulsante, in cui tutto è in continua evoluzione, mosso da un movimento perpetuo al cui centro troneggia l’enigmatica figura di Peter Pan: i Bambini Sperduti cercano Peter, inseguiti dai pirati, a loro volta inseguiti dai pellerossa.

peter-pan5L’adattamento che ci mostra l’inedito volto demoniaco di quello che tutti conosciamo come “il difensore dei bambini” è la serie televisiva Once Upon A Time – in cui Peter Pan è un’ombra malvagia e l’Isola che non c’è assume le tinte dark e i toni noir dell’atmosfera da cui è avvolta, carica della tensione data dal regime oppressivo di Peter nei confronti dei Bambini Sperduti, ridotti a veri e propri schiavi. La cosa più curiosa e singolare di questa versione è la vera natura di Peter – il quale si scoprirà essere il padre di Tremotino, il personaggio più ambiguo e interessante della serie, che ha rinunciato al figlio pur di rimanere sull’Isola che non c’è. Insomma, siamo nuovamente di fronte a un rifiuto, ma questa volta di natura paterna.
Sicuramente questa è la versione più ardita di Peter Pan, che si discosta totalmente dal modello a cui tutti siamo abituati.

I toni gotici, cupi, da La maledizione della prima luna sono ripresi anche da P. J. Hogan in Peter Pan (2003) – versione cinematografica tra le più fedeli all’opera letteraria, che ha tuttavia costituito un imponente flop, a tal punto da segnare la fine della carriera del regista australiano. Stroncata dalla critica per via di una modernità troppo ostentata: nello slang dei protagonisti e nell’inedita tensione sessuale che si avverte tra Peter e Wendy. Seppur per la prima volta sul grande schermo “Peter assomiglia a sé stesso” – con le fattezze di Jeremy Sumpter – questa versione kolossal “ubriaca gli occhi e manca il cuore”.

Il personaggio che più si presta ad essere deformato dalle diverse riletture della fiaba è Capitan Uncino. In origine, il personaggio di Hook (in lingua originale) è definito come “capitano dei pirati, oscuro tanto nel carattere quanto nell’aspetto”. Un uomo senza scrupoli e senza mano – persa per colpa di Peter Pan che è, per questo, il suo nemico numero uno.
In Once Upon A Time, Colin O’Donoghue dona volto e prestanza ad un’irresistibile Capitano, sexy e impertinente – lontano anni luce dalla sua versione animata.

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In Pan (Joe Wright, 2015), ultimo adattamento cinematografico della storia, il personaggio si configura addirittura come figura amica, quasi paterna di Peter. Indolente, egoista e bugiardo ma in fondo decisivo per la salvezza del piccolo orfano volante.hook-capitan-uncino-06

Il piratesco villain dal fascino sinistro ha persino intitolato uno tra i più originali arrangiamenti del cult d’animazione: Hook – Capitan Uncino (Steven Spielberg, 1991). La pellicola si autoconfigura come una sorta di sequel della storia che tutti conosciamo e amiamo: Peter, figlio dell’impeccabile interpretazione di Robin Williams, è un uomo di mezza età, un po’ miope, con figli a carico e una carriera da avvocato che occupa tutto il suo tempo. Un giorno, però, i suoi figli vengono rapiti e trasportati su Neverland: per andare avanti, perciò, Peter dovrà tornare indietro, in quel luogo magico in cui tutto ebbe inizio. Qui sarà costretto nuovamente ad un faccia a faccia con il più temibile tra i corsari: Giacomo Uncino (Dustin Hoffman) – la vera star del film, istrionico e pomposo, seppur destinato a diventare cibo per l’alligatore da cui è perseguitato. Spielberg si riconferma perfetto trovatore e, sostenuto da un cast di prim’ordine, riesce a dipingere un degno inno alla fantasia.

“Ho creato Peter Pan strofinandovi violentemente insieme, come fanno i selvaggi che producono una fiamma da due stecchi. Questo è Peter Pan, la scintilla venutami da voi”.

Con questa frase, il padre dell’eterno bambino dedica la propria opera – una sorta di mitologia dell’infanzia – ai fratelli Llewelyn Davies. Per intrattenere i due fratelli maggiori, George e John, Barrie raccontava che le finestre della loro casa avevano le sbarre per impedire al loro fratellino più piccolo, Peter, di volare via – poiché, nella dimensione fantastica dell’autore, i bambini prima di nascere sono gli uccelli colorati che sorvolano il cielo dei Giardini di Kensington.

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Neverland – Un sogno per la vita
(Marc Forster, 2004) è una parabola sull’immaginazione: si propone di narrarci le origini di Peter Pan attraverso la biografia del drammaturgo scozzese. Il film narra dell’incontro tra Barrie e la famigliola, e del loro chimerico viaggio verso la felicità. J. M. Barrie ha il volto stralunato di Johnny Depp e Sylvia – la madre dei bimbi, vedova e molto malata – l’eleganza di Kate Winslet. La pellicola ci invita a riflettere con una delicatezza disarmante, trasportandoci sulla linea sottile che divide fantasia e realtà.

Molto labile il confine tra reale e immaginario anche nel recentissimo Pan. La pellicola non ha riscosso un grande successo, tuttavia presenta imprescindibili contaminazioni della biografia e delle intenzioni del padre di Peter Pan – Barrie. In primis, il film si apre tra i corridoi asimmetrici di un orfanotrofio, in cui Peter stringe una profonda amicizia con un altro orfano: il più caro tra gli amici d’infanzia dell’autore è John McMillan, il ragazzino con cui condivise l’esperienza in collegio.
Inoltre, viene revocato la differenziazione tra Peter e il Dio Pan – per i greci esso era il figlio di Ermes e della ninfa Penelope, i quali lo abbandonarono per via del suo aspetto mostruoso (aveva le fattezze di un satiro). Il fauno crebbe in mezzo alla natura e si perse in un amore non corrisposto con la ninfa Siringa: un giorno, per non essere raggiunta da Pan, si trasformò in canne palaustri – il Dio ne estirpò alcune e le legò insieme, creando quella zampogna che è anche il simbolo della divinità Pan del film di Wright.
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Il regista trascina lo spettatore in una sorta di delirante prequel della storia originale – moda hollywoodiana che ha portato i suoi frutti per pellicole come Maleficent – in cui Neverland è un’immensa miniera, dove un truccatissimo Barbanera (Hugh Jackman) dai risvolti rock, costringe i bambini rapiti a lavorare quotidianamente alla ricerca della polvere di fata. Un’isola che non c’è riciclata, caotica e sconclusionata, scandita dal ritmo delle canzoni dei Nirvana, in cui Trilli è stata rimpiazzata da una singolare selvaggia pagana di nome Giglio Tigrato e Capitan Uncino è diventato compagno di sventure di Peter.

L’errore principale di queste pellicole è stato probabilmente quello di ardire, snaturando il dramma nascosto tra le pieghe della storia immaginifica, pirotecnica, arricchita dalle atmosfere oniriche di Neverland e dal carisma dei suoi abitanti. Quando si ha a che fare con una fiaba intimistica di questo calibro, occorre tenerne sempre a mente la morale.
“C’è un’Isola che non c’è per ogni bambino, e sono tutte differenti” : Sir James Matthew Barrie ci ha mostrato la sua, ed è così autentica che è impossibile farne copia.

Speciale Colin Farrell – “La mia vita è da manicomio”

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Colin Farrell

A cura di Alexia Altieri
Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Novembre/ Dicembre 2015 – Anno II – N.10 – [Pagg. 49-54] (download qui)


Colin Farrell
è indubbiamente uno dei bad boy più sexy del cinema, con un fascino innato e tormentato, e una predilezione per il ruolo del cattivo.

Colin James Farrell nasce a Castleknock – un quartiere di Dublino, il 31 maggio del 1976. Dapprima sogna di diventare un calciatore come il papà Eamon, poi la mamma Rita Monaghan lo iscrive a un corso di danza, ma il piccolo Colin sente di non aver ancora trovato la sua strada. Da adolescente tenta la strada della musica: partecipa a un provino per entrare a far parte della boyband dell’epoca – i Boyzone – ma non ha fortuna. Passa un periodo in Australia dove provvede al proprio sostentamento lavorando come cameriere, finché finalmente decide di tornare in Irlanda e iscriversi alla Gaiety School of Acting a Dublino. È chiaro fin da subito che è quello il suo destino: nel 1996 entra nel cast di una serie televisiva, comedy drama irlandese, firmata BBC, dal titolo impronunciabile – Ballykissangel.

Ballykissangel sarà un’importante vetrina per Colin, un’emblematica audizione per il mondo del cinema – sarà Tim Roth a notarlo e a trascinarlo sotto le luci patinate dei riflettori con The War Zone (Zona di guerra, 1999), esordio alla regia del talentuoso attore.
Tuttavia, sarà Joel Schumacher a stendere il red carpet ai piedi del giovane irlandese e a sancire il suo ingresso a Hollywood con Tigerland, 2000. Colin è Roland Bozz, un cinico militare ribelle – un eroe per i suoi compagni e un piantagrane per i suoi superiori. Tigerland ci racconta attraverso questo affascinante personaggio la dura preparazione militare dei soldati americani in partenza per il Vietnam – in particolare, Tigerland è il nome dell’ultimo, infernale campo di addestramento, che ripropone fedelmente le dinamiche della guerra. Se Bozz è il focus della vicenda, intorno a lui rimangono ai margini della storia gli altri personaggi, i quali vengono definiti per cliché – il patriottico, il goffo, il dispotico, il fanatico, …
Schumacher richiamerà l’attore per fare da protagonista a In linea con l’assassino (Phone Booth, 2002): una pellicola che si sviluppa all’interno di una vecchia cabina telefonica e riesce a tenere alto il livello della tensione nonostante l’azione si sviluppi unicamente alla cornetta. Colin è Stu Shepard, un borioso consulente per i media – la pellicola si apre sulla sua baldanzosa marcia per le vie di Manhattan, prosegue con una telefonata non rintracciabile alla sua amante e si evolve in una minaccia di morte da parte di una voce che lo ricatta, ingabbiandolo nella cabina con la promessa di tenerlo a tiro con un fucile di precisione.

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Colin Farrell in Miami Vice

L’action thriller è il genere prediletto da Colin, il quale ha ceduto spesso al fascino della divisa: “Spesso, su un set, mi ritrovo con una pistola in mano: e dire che a me le armi non piacciono per nulla”.

A questo proposito, nel palmares dell’attore si sono susseguite pellicole del calibro di Sotto corte marziale (Gregory Hoblit, 2002) – per cui ha collaborato con Bruce Willis, Minority Report (Steven Spielberg, 2002) – al fianco di Tom Cruise, Daredevil (Mark Steven Johnson, 2003) – insieme a Ben Affleck.
Alle pellicole indipendenti si alternano blockbuster come Miami Vice (Michael Mann, 2006) e S.W.A.T. – Squadra speciale anticrimine (Clark Johnson, 2003) – in relazione a quest’ultimo, Colin ha affermato: “È stato divertente recitare in questo film. Da ragazzino ho visto una valanga di film d’azione americani. Una volta tanto è stato divertente fare un’americanata”.
Per quanto riguarda la trasposizione cinematografica di Miami Vice è da citare un simpatico aneddoto: durante le riprese, per evitare l’assalto dei paparazzi, l’assistente di produzione ha fatto indossare a tutta la troupe una maglietta con la scritta Leave Colin alone – inutile dire che la bizzarra T-shirt si è presto trasformata in una vera e propria linea d’abbigliamento.
Tuttavia, nonostante la crescente fama internazionale e la sua partecipazione a queste “americanate”, come lui stesso le ha definite, una cosa è certa: Colin non ha mai venduto l’anima a Hollywood.

Nel 2003 Farrell viene nominato uno dei cinquanta uomini più sexy del mondo dalla rivista People e, nello stesso anno, prende parte al cast di La regola del sospetto di Roger Donaldson in cui collabora con Al Pacino – un vero idolo per Farrell, insieme altri nomi altisonanti: Steve McQueen, Paul Newman, Clint Eastwood, James Caan e Marlon Brando.
Nel film, Al Pacino rispecchia questo ruolo di mentore nei confronti del giovane – che veste i panni filmici dell’apprendista. E li veste alla perfezione, poiché Al lo ha definito “il miglior attore della sua generazione”.

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In Bruges – La coscienza dell’assassino

È passato dal fronte militare, al distintivo, per poi approdare ai ruoli da assassino.
In un’intervista è stato chiesto a Colin cosa ci fosse di attraente in ruoli di questo tipo, e lui ha risposto: “Il fatto che questi personaggi si muovono in un contesto ben definito, in cui è chiaro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma ai margini di questo sistema, come Pride and glory dimostra, ci sono zone d’ombra. Per questo il mio personaggio è difficile da giudicare, anche se come attore gli ho dovuto trovare una giustificazione. Ma nella vita non farei mai il poliziotto.

In particolare, Pride and Glory – Il prezzo dell’onore (Gavin O’Connor, 2008) segna questo passaggio dall’ordine, all’ordine apparente e corrotto del sistema newyorkese, all’altra faccia della medaglia – la criminalità, in cui dominano perversi giochi di potere e spietati assassini.
In Bruges – La coscienza dell’assassino (Martin McDonagh, 2008) rappresenta uno dei punti più alti della carriera di Colin, al quale il ruolo del killer malinconico calza a pennello e gli procura anche un Golden Globe. In Bruges ci racconta la storia di una cittadina medievale irlandese, “personaggio fondamentale che cambia nel corso della storia. All’inizio sembra decisamente benigna, ma poi diventa sinistra quando Harry conferma le preoccupazioni di Ray” – come sostiene lo scenografo M. Carlin. Bruges è un bellissimo museo a cielo aperto eppure Ray (alias di Colin), killer di professione, la disprezza. McDonagh dona abilmente vita ad un complesso giro di vite, in cui la tensione resta alta nonostante l’azione scarseggi, e Colin permea l’intera vicenda con l’affascinante evoluzione introspettiva del proprio personaggio.
Se In Bruges è stato un successo, Alexander – la controversa pellicola con cui Oliver Stone si propone di raccontare la propria versione sulla vita di Alessandro Magno – non ha evitato a Colin la nomination ai Razzie Awards come peggiore attore dell’anno.
Il ritratto pansessuale che Stone ha fatto del condottiero macedone ha lasciato allibiti critica e pubblico – anche la Warner Bros. ha intimato il regista di rivedere alcune scene omosessuali troppo esplicite tra Colin Farrell e Francisco Bosch. Colin definisce questo film “doloroso” e spiega: “mi ha fatto male: non è stato accolto bene, e nemmeno la mia interpretazione è piaciuta. E visto che un attore non fa un film per sé stesso ma per il pubblico, è stata dura da digerire l’idea di aver deluso tanta gente; di aver tradito la figura di Alessandro Magno, la bellezza della sua storia. Mi ci è voluto tempo per superare questo trauma: solo negli ultimi due anni sono riuscito a capire che le battute d’arresto possono capitare e sono riuscito a farmi tornare quella curiosità, quell’entusiasmo che provai a 16 anni quando io, che volevo fare il calciatore, mi ritrovai un po’ per caso a fare l’attore”.

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Colin in Alexander

Colin, come Alessandro Magno, è un grande sognatore: “Fin da bambino guardavo fuori dalla finestra semplicemente chiedendomi cosa sarei diventato. I greci lo chiamano pathos, intendendo desiderio, aspirazione. Io amo sognare ma ancora più amo sognare a occhi aperti perchè quando dormi non hai scelta mentre se sogni ad occhi aperti puoi decidere cosa sognare”.
Le due pellicole che più mettono in risalto questa sua parte sono indubbiamente Saving Mr Banks (John Lee Hancock, 2013) e Storia d’inverno (Akiva Goldsman, 2014). Il primo racconta il fiabesco (e tortuoso) passaggio della fiaba di Mary Poppins dalle pagine di un libro al grande schermo per volere di Walt Disney in persona. Colin interpreta il Mr. Banks del titolo, l’uomo ferito, un padre sensibile e fragile che dev’essere salvato – un’interpretazione commovente ed equilibrata “nel suo implacabile e continuo cambiamento di segno”. In Storia d’inverno, invece, è un eroe romantico – un ladruncolo gentiluomo d’altri tempi che s’innamora di una ragazza nobile e in fin di vita. La storia, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo fantasy di Mark Helprin, parla essenzialmente di miracoli e Amore – quell’amore che ha il potere di resistere al tempo e alla magia demoniaca di un perfetto Pearly Soames (Russell Crowe). Colin è un romanticone: “L’amore ha la forza di attraversare i confini del tempo e sopravvivere anche davanti alla morte, come nel caso dell’amore di Peter nei confronti di Beverly. Mi considero un romantico […] è difficile, ma credo sia possibile questo tipo di sentimento totalizzante e mi commuovo sempre quando incontro coppie che si amano da cinquant’anni. Non so se riuscirò”.

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Storia d’inverno

È vero, Colin ha condotto una vita macchiata da vizi malsani e dagli eccessi – una vita che lui stesso definisce un “manicomio”. Tuttavia, l’attore ha più d’una volta dimostrato di avere un animo sensibile e altruista – quando Colin, insieme ai colleghi Johnny Depp e Jude Law, è stato chiamato da Terry Gilliam per completare l’ultimo film di Heat Ledger: Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo. I tre attori sono saliti sul carrozzone delle meraviglie del Dottor Parnassus e hanno celebrato la memoria del proprio amico scomparso prematuramente, prima della fine del film: le loro parcelle sono state interamente devolute alla figlioletta di Ledger, Matilda.

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Fright Night – Il vampiro della porta accanto

L’abbiamo visto interpretarsi sul grande schermo in tutte le sue sfumature, dalle più malvagie – tra cui spicca l’irresistibile vampiro Jerry di Fright Night – Il vampiro della porta accanto (Craig Gillespie, 2011), svenevole predatore in canotta dalle movenze feline – alle più appassionate, alle più comuni – in Total Recall – Atto di forza (Len Wiseman, 2012), Colin è l’uomo qualunque, insoddisfatto e in cerca di nuovi stimoli mentali, nell’accezione più fantascientifica del termine.
Soprattutto, non ha mai celato al grande pubblico le sue fragilità: in Sogni e Delitti (Cassandra’s dream di Woody Allen, 2007) è un debole, schiavo di tutti quei vizi che all’attore sono così familiari: “Incarnare un personaggio così fragile è stata una liberazione. Dopo tanti ruoli duri, forti, d’azione, che mi hanno affidato: un uomo comune. Non uno che va in giro a far fuori tutti quelli che vede”.

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Premonition

La sua ultima fatica è Premonition (Afonso Poyart, 2015) che vede l’attore tornare sui suoi passi, interpretando l’ennesimo killer che, però, questa volta, presenta una particolarità in più rispetto ai suoi predecessori: è in grado di prevedere il futuro.
Insomma è chiaro che Colin Farrell è ancora in grado di reinventarsi e confezionare interpretazioni degne di nota – quanto è palese che il suo irresistibile charme da bello e dannato è rimasto intatto.