Blow Up: L’arte si arrende alla finzione sullo sfondo della Swinging London

A cura di Alexia Altieri

Blow up di Michelangelo Antonioni è un’opera articolata sulla dicotomia tra realtà e finzione. Un film neorealista che fa del voyeurismo il suo punto cardine e trova nel mezzo fotografico la sua più grande espressione. David Hemmings interpreta Thomas, il fotoreporter di moda al centro dell’intreccio costruito ad arte da Antonioni e reso suggestivo dalla sofisticata fotografia di Carlo Palma. In realtà, Thomas non è altro che un fantoccio, un “mezzo” attraverso cui la macchina fotografica – protesi dello sguardo – esprime la propria egemonia.
Il personaggio di Thomas presenta tracce autobiografiche del regista stesso, il quale ha un passato da documentarista; a questo proposito, Antonioni ci pone di fronte alla contrapposizione tra il cinema esplicativo – volto all’interpretazione del reale – e quello, appunto, documentaristico che privilegia la pura registrazione dei fatti.
Il film, ispirato ad un racconto dello scrittore argentino Julio Cortazar, ci racconta la storia di Thomas, l’affascinante e un po’ cinico fotografo di moda, annoiato dalla vita mondana e in cerca di ispirazione. Un giorno, in un parco dell’East End, riprende furtivamente le effusioni di due amanti: sarà proprio questo episodio a generare in lui una sorta di ossessione ontologica per la realtà. 

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Grand Budapest Hotel – L’eco delle favole di Wes Anderson

A cura di Alexia Altieri

Il Grand Budapest Hotel di Wes Anderson gode della singolare magnificenza della fantasia del suo autore. Anderson, a cui è stato attribuito il titolo di “magnifico arredatore di interni”, ha dato vita ad una commedia eccentrica al punto da sembrare surreale – uno sgargiante caleidoscopio di situazioni e personaggi, in cui il senso rimane sospeso, insieme al tempo. Sono principalmente quattro i piani temporali entro cui si articola la vicenda – quattro epoche che si riversano l’una nell’altra, secondo un articolata struttura a scatole cinesi, ed ognuna di queste epoche è palesata allo spettatore attraverso l’uso de formato cinematografico tipico di quegli anni. Il racconto si apre sull’oggi, su una statua mortuaria stagliata contro uno scenario lugubre, al centro dello spazio dell’assenza – Wes ci mostra già l’epilogo, quel retrogusto amaro che permea e sporca il tono patinato ed infantile di tutto il racconto. L’oggi è quel che rimane dello scrittore che, nella scena successiva, vediamo ormai anziano (Tom Wilkinson), ricordare e raccontare un momento topico della propria vita. L’onda di questo ricordo ci travolge, e ci scaraventa indietro nel tempo, fino agli anni Sessanta – in cui il Grand Budapest Hotel, dallo stile architettonico di forte ispirazione sovietica, si fa simulacro della decadenza, offeso dalle ingiurie del nazismo e dal tocco mortuario della guerra che è passata e ha cancellato tutto il fasto della Belle Epoque 

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