L’amore secondo gli Americani

Titolo originale: The Big Wedding

Regia: Justin Zackham
Sceneggiatura: Justin Zackham
Fotografia: Jonathan Brown
Montaggio: Jon Corn
Scenografia: Andrew Jackness
Costumi: Aude Bronson-Howard
Musiche: Nathan Barr
Cast: Robert De Niro, Katherine Heigl, Diane Keaton, Amanda Seyfried, Topher Grace, Ben Barnes, Susan Sarandon, Robin Williams, Christine Ebersole
Produzione: Justin Zackham, Anthony Katagas, Clay Pecorin, Richard Salvatore, Harry J. Ufland
Paese di Produzione: U.S.A.
Anno: 2013
Durata: 89′

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A cura di Alexia Altieri

Classico e veramente poco originale wedding movie che ha come unico merito quello di riunire un cast stellare (Robert De Niro, Diane Keaton, Susan Sarandon, Robin Williams) ad uno di giovani promettenti (Amanda SeyfriedBen Barnes, Topher Grace, Katherine Heigl).

Big Wedding è il remake della pellicola francese “Mon Frère se Marie del 2006, diretto da Jean-Stéphan Bron: è una rilettura, quindi, che Zackham fa in puro american style.

Un film dalla trama a tratti molto confusa, sorretto dal confronto tra due generazioni di attori comedy americani in confronto tra loro:

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Robert De Niro – premio Oscar come miglior attore non protagonista ne Il padrino – Parte II nel 1975; premio Oscar come attore protagonista in Toro scatenato nel 1981 – interpreta il ruolo di Don Griffin. Ancora una volta ritroviamo l’attore nei panni del marito “mascalzone” e del padre pressoché assente. Purtroppo, però, stavolta la presenza di De Niro non basta a far decollare un film che fa della farsa la sua principale chiave di lettura.

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Diane Keaton – premio Oscar come miglior attrice per Io e Annie di Woody Allen, nel 1978 – interpreta Ellie Griffin, ex moglie di Don, ebrea buddista che pratica il sesso tantrico. A mio parere, il suo personaggio, più di tutti gli altri, da adito alla realizzazione di siparietti farseschi. Espressioni facciali esagerate e recitazione esasperata, la Keaton, in questo film, sembra giocare il ruolo della commediante teatrale più che dell’attrice comica cinematografica.

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Susan Sarandon – premio Oscar come miglior attrice di Dead Man Walking – Condannato a morte, del 1996 – gioca il ruolo di Bebe McBride, la nuova donna di Don Griffin, nonché migliore amica di Ellie Griffin. Una signora estremamente indulgente, vegana e appassionata di carlini, personaggio che manca totalmente di spessore, al punto da sembrare una parentesi trasparente che si “frappone” tra i vari personaggi, unendoli anche a proprio discapito.

ImageAmanda Seyfried è la signorina O’Connor; ancora una volta nei panni di una dolce sposina, dopo l’esperienza del musical Mamma Mia! è un altro personaggio poco originale e poco sviluppato, che accentua la tendenza del film allo stereotipo.

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Ben Barnes è Alejandro Griffin, lo sposo. Alejandro ha tre mamme: quella biologica, estremamente cattolica e bigotta (almeno a primo acchito), quella adottiva (Ellie Griffin) e Bebe McBride, quella acquisita e, che più delle altre due, si dimostra materna nei suoi confronti. Anche Alejandro è un personaggio alquanto piatto, poco propositivo, poco dinamico, poco decisivo per quanto riguarda lo sviluppo della trama.

Il gioco degli stereotipi continua poi con Topher Grace nei panni di Jared Griffin, il “fratello dottore e vergine” e Katherine Heigl nei panni di Lyla Griffin, la “sorella avvocato infelice”, in crisi col proprio consorte per via della propria condizione di donna sterile (anche se alla fine del film, prevedibilmente, si scopre incinta).

Quello di Zackham è un film basato sugli equivoci che vorrebbe essere politicamente scorretto e trasgressivo, ma sfocia in un’inesauribile banalità. Quella dei Griffin è una famiglia anomala, seppure paradossalmente molto unita da “tutti i tipi di amore“, come li definisce il personaggio di Diane Keaton.

Una commedia di cui la promiscuità si fa unico e vero protagonista, che si sviluppa, con andamento sbilenco, in un balletto di nuovi e vecchi amori, sconsacra il sacramento del matrimonio e il ruolo del parroco, viola i valori etico-morali familiari e, soprattutto, mortifica il gruppo di grandi attori che vi prende parte.

Concludo, riprenderei il sottotitolo del film stesso:

Non è mai troppo tardi per far finta

        di essere una vera famiglia.

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Ricombatto da capo

Titolo originale: Edge of Tomorrow

Regia: Doug Liman
Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Jez Butterworth, Jonh-Henry Butterworth
Soggetto: Hiroshi Sakurazaka
Fotografia: Dion Beebe
Montaggio: James Herbert
Scenografia: Oliver Scholl
Costumi: Kate Hawley
Musiche: Ramin Djawadi
Cast: Tom Cruise, Emily Blunt, Bill Paxton, Noah Taylor, Brendan Gleeson, Jonas Armstrong
Produzione: Jason Hoffs, Gregory Jacobs, Tom Lassally, Jeffrey Silver, Erwin Stoff
Paese di Produzione: U.S.A., Australia
Anno: 2014
Durata: 113′

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A cura di Alexia Altieri

 

Pellicola che nasce come adattamento cinematografico della light novel di Hiroshi Sakurazaka, All You Need Is Kill.

Protagonista di questo breve romanzo illustrato giapponese, pubblicato nel dicembre 2004, è una recluta dell’UDF (Unit Defense Force) chiamata a combattere contro una misteriosa specie aliena, i Mimics, che sta annientando la razza umana.

In Edge of Tomorrow, il protagonista è William Cage (Tom Cruise), un lavativo e, diciamolo, un po’ vigliacco funzionario dell’esercito che viene inviato, contro la sua volontà, a combattere contro gli stessi Mimics di Sakurazaka.

Siamo di fronte ad un film multigenere, che risponde principalmente alle logiche del film d’azione e alle atmosfere /personaggi tipici del genere fantascienza, ma non manca di originalità. Film venato di una costante ironia, disseminato di simpatiche e per nulla scontate gag e caratterizzato da dialoghi brillanti, oltre alle consuete botte da orbi da film action, il ché lo rende, senz’altro, un film piacevole anche per chi non ama particolarmente il genere azione e fantascienza.

Edge of Tomorrow si rifà al concetto di Time Loop, ovvero la ripetizione ciclica del medesimo arco di tempo. In questo caso, Doug Liman sembra riprendere il discorso iniziato nel 1993 da Ricomincio da Capo di Harold Ramis: assistiamo ad un progressivo miglioramento personale del protagonista attraverso la ripetizione delle stesse situazioni. Infatti, il tenente Cage è intrappolato in un ciclo temporale che, ogni qualvolta muore sul campo, lo costringe a rivivere, continuamente, la stessa giornata, in modo da affinare, di volta in volta, le proprie abilità di combattente. Gli autori, attraverso il montaggio, giocano proprio su queste continue ellissi temporali per creare svariate situazioni divertenti che allentano la tensione dell’invasione aliena sulla Terra.

ImageCome già detto in precedenza, William Cage è un anti-eroe, inizialmente: un soldato incapace di portare a termine la propria missione, che sembra non avere alcuna possibilità di sopravvivenza, ma dotato di un’immensa dose di fortuna.

Tom Cruise ne parla in questi termini:

Cage era un personaggio davvero divertente da interpretare. Lavora nell’ambito militare, ma non è un soldato; rappresenta la faccia della guerra pur non essendo affatto eroico. In realtà, non è nemmeno un eroe riluttante, è un vigliacco che farebbe qualsiasi cosa pur di estraniarsi dalla lotta. E invece deve rivivere questa sanguinosa battaglia più e più volte. Ogni volta che si risveglia, ricomincia il suo peggior incubo.

Ma William Cage non è l’unico protagonista, poiché verrà affiancato da un personaggio che di coraggio, al contrario del tenente, ne ha da vendere. Rita Vrataski (Emily Blunt) è una vera e propria eroina che diventa per Cage una sorta di mentore, di guida, poiché anch’essa, prima di lui, era rimasta intrappolata nello stesso time loop. Tra i due si crea un’intensa alchimia che li vedrà rivivere, fianco a fianco, lo stesso giorno, avanzando, progressivamente, verso l’ultima battaglia, la più importante, che si svolgerà all’interno di uno dei simboli parigini: il Louvre.

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 Il film di Liman è costruito come un videogame, ed i due personaggi sono richiamati a rigiocare più e più volte lo stesso livello. E se si muore, si ricomincia daccapo.

Inoltre, le inquadrature panoramiche dei luoghi in cui si svolgono le battaglie, l’abbigliamento “da combattimento” indossato dalle reclute e le sembianze degli alieni riprendono, esplicitamente, le dinamiche dei videogiochi.

Inoltre, lo scenografo Oliver Scholl, il quale annovera tra i suoi credits anche Indipendence Day, permea il film di spettacolarità.

 

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Insomma, un blockbuster che non rimane costretto nei rigidi schemi tradizionali della fantascienza, ma si colora di svariate – ed inattese – tinte, che alleggeriscono ed insaporiscono la trama.

Il produttore Jeffrey Silver conferma:

Ho pensato che fosse la sceneggiatura in tema di combattimenti più originale che avessi mai letto.

Ho apprezzato questo modo del tutto originale di riprodurre la stessa giornata in un loop temporale, che spesso viene fuori in modo molto divertente, che considerava i valori umani più comuni, e con protagonisti dei personaggi che hanno un rapporto davvero insolito.

 

Originale anche l’happy ending: quando pensiamo che tutto sia perduto, ecco disattese le nostre aspettative.

Ennesimo salto temporale. Primo piano sul ghigno compiaciuto del tenente William Cage, finalmente in veste ufficiale. E, subito dopo, i titoli di coda.

 

 

Un’esplosiva no-ending comedy

Titolo originale: Eyjafjallajökull

Regia: Alexandre Coffre
Sceneggiatura: Laurent Zeitoun, Yoann Gromb, Alexandre Coffre
Musiche: Thomas Roussel
Cast: Valerie Bonneton, Dany Boon, Denis Ménochet, Albert Delpy, Bérangère McNeese, Constance Dollé
Nazionalità: Francia
Anno: 2013
Durata: 92′
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A cura di Alexia Altieri

Dall’impronunciabile titolo originale, Eyjafjallajökull, agevolato dall’originale sottotitolo “altrimenti dite vulcano“, la commedia di Coffre è un susseguirsi di colpi: colpi bassi, di testa, di genio, simpatici colpi di scena, svariati colpi mancini ed un rinnovato colpo di fulmine.

La trama s’ispira a quanto accaduto nel 2010, quando l’Eyjafjallajökull ha eruttato, causando una cupa nube di ceneri vulcaniche che ha determinato un inevitabile blocco del traffico aereo.
La storia narrata da Coffre ha origine proprio a partire da questo pretesto: Alain (Dany Boon) e Valérie (Valérie Bonneton), due ex coniugi, si ritrovano accidentalmente sullo stesso volo diretto a Corfù, in Grecia, dove la giovane figlia Cécile convolerà a nozze. L’eruzione improvvisa del vulcano, però, costringerà i due a trovare una via alternativa per arrivare in tempo per il matrimonio.

Il vulcano è solo protagonista apparente della pellicola poiché, in realtà, non ci viene mai mostrato. Funge, così, da pretesto per far rincontrare i due coniugi separati che si odiano irrimediabilmente, l’un l’altro.
Con il progredire della vicenda, l’Eyjafjallajökull sembra quasi diventare metafora della deflagrazione di un ritrovato sentimento ed una ritrovata intimità tra i due.

Alexandre Coffre definisce questo suo road movie trasfigurato in chiave tragicomica, come

Una commedia anti-romantica

                      venata di avventura

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Alain e Valérie  compiono un viaggio isterico verso Corfù, violando la legge istituzionale, trasgredendo quella morale, perdendo ogni cosa (vestiti, documenti, faccia), ritrovandosi, però, complici in tutte quelle situazioni irreali.

Una commedia che prende quota e mantiene coerenza per tutto il dipanarsi della storia. Un cocktail esplosivo senza esclusione di colpi che conserva un ritmo concitato e, come un turbine, coinvolge lo spettatore in sala.

Del resto, Dany Boon è una vera e propria garanzia. Protagonista di esilaranti commedie, tra cui spiccano Bienvenue chez les Ch’tis (Giù al nord, 2008) ed il recentissimo Supercondriaque (Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute, 2014), di cui lui stesso è anche regista, oltre che co-protagonista al fianco di Kad Mérad, con il quale forma un duo irresistibile.

Anche in questo film, Boon convince e catalizza tutta l’attenzione dello spettatore su di sé, sulla propria personale comicità che definirei, a tratti, slapstick.

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Tutta colpa del vulcano ha un tono molto realistico e attuale, poiché ciò che prevale in ogni scena è l’inesauribile battaglia tra sessi. Concetto per il quale è impossibile non trovare delle similarità con il film diretto da Danny DeVito del 1989, The War of the Roses (La guerra dei Roses), con protagonisti Michael Douglas e Kathleen Turner.
Anche se nel film di Coffre assistiamo ad un rovesciamento del tradizionale modello familiare, poiché è l’uomo, Alain, ad essere sentimentale, premuroso e ancorato al valore della famiglia, mentre la donna, Valérie, è smaliziata ed in carriera.

Alain e Valérie non sono personaggi prevedibili né stereotipati. Vittime di quelle fluttuazioni comuni in ogni coppia, un minuto prima si odiano fino a volersi uccidere ed un minuto più tardi si salvano la vita a vicenda. Entrambi legati da una sorta di alchimia negativa, scopriranno, man mano che si avvicinano all’unico “bene” che hanno in comune, che alla base della loro disistima reciproca c’è di più, qualcosa di non detto o di non ammesso.

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Film dalle scene esilaranti che, talvolta, mi ha ricordato la trilogia di Una notte da leoni di Todd Phillips: c’è un matrimonio a cui sembra di non riuscire ad arrivare e c’è un percorso da compiere, disseminato di ostacoli e di incontri assolutamente singolari.

Assolutamente da citare è l’incontro con Ezéchiel (Denis Ménochet), ex killer seriale convertito ad un fanatismo religioso tale da trasformare il proprio camper in una sorta di “arca di Noé” con tanto di sagrestia. Il santone affetto da seri problemi psicologici è assoluto protagonista della, a mio parere, sequenza più esilarante di tutto il film.

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Insomma, 92 minuti di puro intrattenimento non-stop, che non prevede punti morti in cui poter tirare il fiato.

Nonostante la storia sia dotata di happy-ending, per i due protagonisti i problemi non sono ancora finiti, costretti a scontare in Grecia le loro varie infrazioni.

Un mirabolante concatenarsi di disavventure che fanno sorridere e si protraggono ben oltre la fine del film.

Come risulta chiaro in un’ultima scena, posta a seguito dei primi titoli di coda, quando Cécile, guardando i video-messaggi registrati dalla madre durante tutto il percorso, fa un’imbarazzante scoperta.

Non credete alle favole

Titolo originale: Maleficent

Regia: Robert Stromberg
Sceneggiatura: Linda Woolverton
Soggetto: Charles Perrault, Fratelli Grimm, Joe Rinaldi, Winston Hibler, Bill Peet, Ted Sears, Ralph Wright
Fotografia: Dean Semler
Montaggio: Chris Lebenzon, Richard Pearson
Scenografia: Gary Freeman, Dylan Cole
Costumi: Anna B. Sheppard
Cast: Angelina Jolie, Elle Fanning, Lesley Manville, Imelda Staunton, Juno Temple, Sam Riley, Brenton Thwaites, Kennet Cranham, Hannah New, Isobelle Molloy, Ella Purnell, Vivienne Jolie-Pitt
Produzione: Joe Roth
Nazionalità: U.S.A.
Anno: 2014
Durata: 97′

Maleficent

A cura di Alexia Altieri

Retelling del celebre film d’animazione del 1959, intitolato “La bella addormentata nel bosco”, Maleficent è la stessa storia in liveaction, narrata seguendo il punto di vista dell’anti-eroe, Malefica.

Film che si fa seguito del trend cinematografico degli ultimi anni, rivisitando la nota fiaba prodotta da Walt Disney in chiave dark. In antitesi ai film d’animazione Disney, le fiabe moderne pongono il focus sui “cattivi” che, da sempre, sono i personaggi più interessanti ed affascinanti, iconici e sarcastici.

In particolare, Stromberg ci racconta la genesi della villain dallo sguardo magnetico di un verde iridescente. Nei panni di Malefica, una perfetta Angelina Jolie, con zigomi accentuati ed orecchie a punta, che, da sola, vale il prezzo del biglietto. Nel vestire i panni dell’ennesima strega dark delle favole, Angelina convince sicuramente di più rispetto alle colleghe Julia Roberts e Charlize Theron che, rispettivamente in Mirror Mirror (Biancaneve, Tarsem Singh, 2012) ed in Snow White & the Huntsman (Biancaneve e il cacciatore, Rupert Sanders, 2012), hanno vestito i panni della famosissima strega di Biancaneve. Prossimamente, il testimone verrà passato a Cate Blanchett che vedremo nei panni di Lady Tremaine, una rinnovata matrigna protagonista di Cinderella (Cenerentola, Kenneth Branagh, 2015).

Maleficent si distingue, oltre che per la trama, che si discosta radicalmente da quella che conosciamo (emblematica, in questo senso, l’iconica frase che appare già sulla locandina del film: “Non credere alle favole”), anche per le atmosfere inattese, irreali, sintesi delle antiche atmosfere fiabesche che irroravano di magia le fiabe con cui siamo cresciuti, e dell’iper-realismo della modernissima tecnologia digitale. Non a caso, Maleficent costituisce l’esordio cinematografico di Robert Stromberg, meglio noto per la realizzazione delle iperboliche scenografie di Avatar (James Cameron, 2009), Alice in Wonderland (Tim Burton, 2010) e Oz: The Great and Powerful (Il grande e potente Oz, Sam Raimi, 2013).

“Per me come regista è stato importante conservare un sufficiente numero di elementi de La Bella Addormentata nel Bosco, in maniera tale che i fan dell’originale non rimangano delusi quando vedranno questo film. Sentivo che era importante che la gente vedesse non solo questo personaggio classico realizzato sotto una nuova luce, ma anche la genesi di alcuni di quegli elementi della storia che ricordano l’originale”. [Robert Stromberg]

Pertanto, Stromberg si sofferma e ci motiva la costante presenza del corvo nero sulla spalla di Malefica, e ci restituisce, in maniera prettamente  personale, la presenza delle tre fatine ed il maleficio del fuso, tratti salienti della fiaba originale.

In Maleficent, tutti i personaggi stereotipati e bidimensionali della prima versione della fiaba de La Bella Addormentata nel Bosco, acquistano spessore. Il corvo si dimostra capace di provare umana compassione, le tre fatine si trasformano in donne un po’ svampite e superficiali e, soprattutto, Malefica diventa un personaggio ricco di sfaccettature, con un ampio spettro emotivo.

Paradossalmente, sono proprio gli umani ad apparirci “mostruosi”, in primis Re Stefano (Sharlto Copley), il quale tradisce il legame che lo lega a Malefica, e le ruba le ali per diventare Re e soddisfare, così, la propria brama di potere. Concetto che è esplicitato e stilizzato nella frase pronunciata dalla stessa Malefica: “Il male è di questo mondo“.

La nemesi è il fulcro della storia: ciò che spingerà Malefica ad abbattere il proprio maleficio sulla piccola Aurora, in quanto figlia dell’uomo che l’ha ingannata e, di conseguenza, sarà proprio la vendetta l’unico sentimento che anima Re Stefano per tutto il resto della storia.

Come ogni favola ha la sua morale, anche Maleficent porta con sé una riflessione: è riduttivo suddividere il mondo in buoni e cattivi, poiché nessuno nasce cattivo e, al di là, di qualcuno che sbaglia c’è sempre chi, prima, ha sbagliato con lui e, per questo, ne ha fatto indurire il cuore. E sarà proprio quel maleficio a guarire il cuore di Malefica.

In Maleficent non c’è spazio per l’amore. E’ emblematica la figura di Re Stefano, il quale è completamente incapace di amare. Se, dapprima, inganna Malefica, tramutandola in una fata cattiva colma di rancore e odio, nel corso del film, si dimostrerà anche completamente indifferente di fronte alla morte della propria consorte. Nella fiaba riscritta da Stromberg, non esiste alcun Principe Azzurro in grado di spezzare l’incantesimo attraverso il cosiddetto “bacio del vero amore”. Il regista tradisce la propria matrice fiabesca, mettendoci di fronte ad un valore più reale: non esiste amore più vero di quello materno. Ed è proprio un amore materno quello che, progressivamente, unisce Aurora (Margherita De Risi) alla fata “cattiva”.

Simbolica, in questo senso, è la sequenza in cui vediamo Malefica approcciarsi ad un’Aurora ancora bambina, interpretata da Vivienne Jolie Pitt, ovvero la vera figlia di Angelina Jolie e Brad Pitt.

Aurora ridona a Malefica la speranza e la fiducia negli umani, che Re Stefano (l’unico vero “malefico” della storia) sembrava avergli strappato per sempre, insieme alle enormi ali: in questo caso, proprio le ali diventano simbolo di speranza e di perdono e, non a caso, sarà proprio Aurora a restituirle alla fata.

Malefica è, perciò, la vera protagonista di questo reboot completamente al femminile, in cui ciò che conta non è l’anonimo principe azzurro Filippo (Brenton Thwaites), ma una madre elettiva ed una figlia, seppure non biologica, che, insieme, riportano serenità e unione nei mondi che abitano.