I mille volti di Londra

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A cura di Alexia Altieri
Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Febbraio 2016 – Anno II – N.12 – [Pagg. 20-25] (download qui)

I primi di marzo uscirà al cinema Attacco al Potere – London has fallen.
Se il primo capitolo, Attacco al Potere – Olympus Has Fallen, vedeva la Casa Bianca presa d’assalto da estremisti nord-coreani decisi a colpire al cuore del potere a stelle e strisce, questa volta tocca alla capitale britannica essere nel centro del mirino.
Londra è stata spesso letta e riletta dagli occhi del cinema – location privilegiata di film dei generi più disparati. È stata nido d’amore, epicentro magico, palcoscenico di efferati omicidi e di impenetrabili misteri, ma soprattutto cuore pulsante dell’epoca vittoriana – in tutti i suoi sontuosi cambi d’abito: dal panciotto del diabolico barbiere di Fleet Street alla sfarzosa stoffa celeste che adorna l’abito vittoriano di Alice in Wonderland.

Londra romantica – Notting Hill, Roger Michell, 1999
Londra fa da sfondo all’appassionante storia d’amore tra l’elegante star hollywoodiana in trasferta e il libraio inglese, affascinante e anonimo, oltre che squattrinato. Julia Roberts e Hugh Grant si amano sul grande schermo e fanno sognare. Portobello Road è il cuore di Notting Hill – il caratteristico mercatino delle pulci e il negozio di libri di William Thacker, ne rappresentano l’attrazione principale. La città si fa teatro di un amore inedito: due mondi diversi quelli di Anna Scott e William, che si incontrano e scontrano in un’accecante e inaspettata passionalità dal retrogusto clandestino – i due si amano avvolti nell’oscurità dei giardini di Rosmead Gardens, al di là della recinzione che scavalcano senza remore e mano nella mano per le strade londinesi. 
Londra è amori intensi e cuori spezzati. Alla Waterloo Station, Gwyneth Paltrow da corpo al suo bivio, un macchinoso “what if” che ha seguito i moti del cuore della protagonista di Sliding Doors, tra le vie della città, per poi ritrovarla tradita, ferita – dalle schegge di una voce rotta dal pianto.
All’8 di Bedale Street si trova il pub di fronte al quale lo stesso Hugh Grant prende parte a una rissa con Colin Firth – contendenti al cuore di Renée Zellweger, nei panni della goffa trentenne single-non-per-scelta Bridget Jones.


I due volti della Londra vittoriana burtoniana:

Londra aristocratica, superficiale e di facciata – Alice in Wonderland, Tim Burton, 2010
L’Alice burtoniana non è in sintonia con l’ambiente che la circonda: le regole imposte dall’etichetta e i cliché di buon costume le stanno stretti. La Londra vittoriana viene traslata a sinonimo di spazio claustrofobico, di una mentalità ristretta e sterile, che lascia ben poco spazio all’immaginazione.
Londra plumbea, vendicativa e sanguinolenta –
Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, Tim Burton, 2007

Siamo completamente immersi nella foschia della Londra gotica della scenografia di Dante Ferretti, che si riversa nel nero fotografico di Dariusz Wolski – riflesso architettonico della favola nera abilmente inscenata e fatta propria dal regista. Burton deforma consapevolmente la messa in scena: viviseziona il corpo del film, inghiotte e rigurgita una società malata, incline al tradimento e al cannibalismo, e chiama a rapporto il suo attore feticcio – Johnny Depp.
Per interpretare Benjamin Baker, l’attore deve muoversi sul registro espressivo del tormento: azzera ogni ombra di civiltà e sprofonda nell’anima inquieta del diabolico barbiere – squarcia le tenebre di quell’abisso con la lama del proprio rasoio e lascia che fiotti di sangue scorrano nelle fenditure.

Londra brutalmente violata – La vera storia di Jack Lo Squartatore, F.lli Allen e Albert Hughes, 2001
Sotto l’epidermide della storia, pulsano le vene di Londra. Questi simboli, la squadra, il pentacolo; anche un individuo profondamente ignorante e depravato come voi, avverte che essi sono pregni di energia e di significato. Quel significato sono io, sono io quell’energia. Un giorno gli uomini diranno, guardandosi indietro, che sono stato il precursore del XX secolo” – Jack Lo Squartatore.
Il quartiere di Whitechapel è passato alla storia – ma non nel modo per cui avrebbe voluto essere ricordato. Ci troviamo di fronte all’ennesima rappresentazione di Londra, quella torbida e profanata del 1888 – cuore della rivoluzione industriale, disseminata di pub frequentati da persone poco raccomandabili; viva nello scalpitio degli zoccoli di cavalli al traino di carrozze invisibili, immerse nella nebbia, e nel rumore molesto di violente scazzottate nei vicoli bui. Non solo scazzottate. A quei tempi, nell’oscurità della città si muoveva furtivo l’efferato omicida, più noto sotto l’inquietante pseudonimo di Jack The Ripper. Il primo corpo viene rinvenuto in Buck’s Row: una delle strade del triste quartiere dilaniato dalla povertà e dal degrado, teatro dei selvaggi assassinii di cinque prostitute. Il corpo viene a stento identificato: si tratta di Mary Ann Nichols.
Le pagine più macabre della storia londinese sono racchiuse idealmente nel London Dungeon Museum: dove vengono riprodotte teatralmente alcune tra le più micidiali scene del crimine che hanno marchiato a sangue la cultura popolare britannica – inutile dire che quelle relative a Jack Lo Squartatore sono tra le più richieste dai visitatori.

Il lato oscuro di Londra e le sue perversioni – Dorian Gray, Oliver Parker, 2009
La Londra del XIX secolo era un adorabile paradiso dei contrasti, dei vizi e delle virtù: una faccia della medaglia riluceva dei primi quartieri residenziali, delle prime classi benestanti, dei benpensanti e degli artisti di quell’epoca; il rovescio della medaglia vedeva invece una consistente fetta di popolazione riversata nelle baraccopoli, o vittima del degrado sociale e della perdizione– illegalità, prostituzione, oppio e alcol erano lo scomodo contraltare di un ostentato puritanesimo di facciata. Dorian Gray nasce dalla penna di Oscar Wilde e diviene manifesto di un estetismo decadente: il ritratto di Dorian Gray è il ritratto della stessa Londra – poiché sotto l’immortale bellezza e il satinato splendore si cela un’anima sudicia, sfigurata, diabolica.

Londra misteriosa – Sherlock Holmes, Guy Ritchie, 2009
Siamo nuovamente nell’Ottocento e Londra ha conservato quell’aurea di mistero che le conferisce un fascino fatale. Anche Guy Ritchie gioca sulla logica del contrasto, trasportandoci nell’azione – in una sorta di braccio di ferro tra potere, forza fisica e acume – dipingendo deliziosi quadretti fatti di enigmi e metodica violenza a mani nude, seppur mantenendo sullo sfondo i fastosi palazzi delle istituzioni, accanto ai cantieri – testimoni della rivoluzione industriale, del progresso edile e tecnologico. E poi c’è il seducente richiamo dell’occulto, di ciò che non si può spiegare: un irresistibile Sherlock bohémien, che è solito rifugiarsi nel suo appartamento, al celebre 221B di Baker Street, per fare congetture e testare – stordito dai fumi dell’oppio ma pur sempre geniale – strane sostanze miracolose, con il suo fidato Watson al seguito, striscia per i labirintici cunicoli fognari dell’East End londinese, scova malfattori e sventa pericoli.

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Londra magica – la saga di Harry Potter
La saga dedicata al maghetto più famoso di sempre ha dato ulteriore linfa vitale alla fama cinematografica internazionale della capitale britannica. Un giro di bacchetta, un incantesimo ed ecco che Londra si cambia d’abito e indossa il cappello a punta – anzi, il Cappello Parlante!
La Gringotts Bank, la sede del Ministero della Magia, Diagon Alley, il Millennium Bridge e più di tutti la stazione di King’s Cross sono entrati ufficialmente nell’immaginario collettivo di chi ama la saga di Harry Potter e – di conseguenza – ha amplificato il proprio amore per Londra. Il binario 9 ¾ di King’s Cross Station a Euston Road è stato addirittura ricreato, attraverso una targa e un carrello portavaligie idealmente incastrato nel muro, a metà tra il mondo reale e quello magico. Tutti i film di Harry Potter sono stati girati ai Leavesden Film Studios – i set sono oggi visitabili e quindi tappa fondamentale per tutti gli appassionati di Hogwarts.

Londra vendicata – V per Vendetta, James McTeigue, 2005
Londra è chiamata a prender parte all’ennesimo gioco di ruolo: McTeigue la prende tra le mani, la stropiccia, la deforma e le conferisce natura distopica. L’immagine che ne deriva è quella di un mondo futuristico in cui vige un regime totalitario, che si contrappone alla più radicale anarchia personificata nell’enigmatico Mr. V.
Buona sera, Londra. Prima di tutto vi chiedo di scusarmi per questa interruzione”: afferma V, apparendo sullo schermo principale della celebre piazza londinese, Piccadilly Circus. La sua lotta per la libertà si articola tra Trafalgar Square, la Central Criminal Court, la stazione abbandonata della metropolitana – Aldwych Station e il Parlamento, per poi prorompere in un’esplosiva tabula rasa del centro dell’assolutismo britannico. Londra cade in ginocchio, e tutti stanno a guardare.

Londra action – saga di James Bond
Impossibile non pensare a Londra quando si parla dell’agente segreto più fascinoso di sempre. Basti parlare degli uffici della Universal Exports, o a Pierce Brosnan che cade da una mongolfiera e atterra sul tetto dell’Arena O2 nell’episodio “Il mondo non basta”, o il più recente Daniel Craig che corre a perdifiato per le strade di Whitehall in Skyfall. La città stessa sembra prender parte all’azione, le rive del Tamigi sembrano correre fianco a fianco all’agente 007. Si può dire che Londra rifletta esattamente la saga: non a caso, Ian Fleming, autore di James Bond, era solito frequentare il Dukes Bar – luogo di nascita del celebre Vesper Martini.
James Bond: “Un Vodka Martini”.
Barista: “Agitato o mescolato?”
James Bond: “Che vuole che me ne freghi?”
James Bond: “Penso che lo chiamerò Vesper”
Vesper Lynd: “Per via del retrogusto un po’ amaro?”
James Bond: “, perché una volta che lo hai assaggiato, non puoi più bere altro” – Casinò Royale.

Attacco al potere – London has fallen, Babak Najafi, 2016
Ancora una volta Londra è stata scelta per presenziare una pellicola hollywoodiana. Quale maschera dovrà indossare? Quale ruolo sarà chiamata ad interpretare?
Il film uscirà nelle sale il 3 marzo – alla pellicola prenderanno parte Gerard Butler, Aaron Eckhart,

Peter Pan: un mito senza età

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Peter Pan – Walt Disney Pictures

Il mito di Peter Pan è senza età per antonomasia – non appare mai obsoleto al grande pubblico e il suo fascino resiste al tempo. Tuttavia, è ormai un dato di fatto che ogni sua trasposizione cinematografica non rende giustizia al gioiello letterario originale.
Il suo autore, James Matthew Barrie ha messo così tanto di sé e della propria storia tra quelle pagine che ogni altra versione o revisione appare inevitabilmente impersonale.

Peter Pan non è solo entertainment – ed è forse questo l’errore commesso dai registi che hanno preso in prestito la parabola del bambino che non voleva crescere e l’hanno resa un concerto di effetti speciali e ritmo; ci racconta soprattutto l’intimità del suo autore, i suoi drammi infantili, l’opprimente solitudine alimentata dal bisogno di calore materno e l’incontro fortunato con i piccoli fratelli Llewelyn Davies, tra i romantici sentieri dei Giardini di Kensington.

Peter è David, il fratello di Barrie che non diventò mai Adulto, morto prematuramente in un incidente sulla pista di pattinaggio sul ghiaccio. David era il figlio prediletto e quando morì la madre si chiuse in un dolore solitario, silenzioso e totalizzante – un silenzio che gridava a Barrie che non avrebbe mai preso il posto che il fratellino aveva nel suo cuore. Per un periodo il piccolo Barrie prese in prestito l’identità del fratello, indossando i suoi vestiti e assumendo le sue movenze. È facile, quindi, intuire la centralità del “rifiuto materno” nella favola di Peter Pan: sull’Isola che non c’è, i bambini sono tutti orfani e tutti i personaggi (compreso Capitan Uncino e la sua ciurma di pirati) conservano l’intimo desiderio di avere qualcuno che gli faccia da madre – figura che si esplicita nella premurosa Wendy.
L’ossessiva ricerca di una figura materna è il tema centrale della storia. Barrie provava per la madre una profonda devozione: le dedicò anche una sentita biografia, Margaret Ogilvy (1896). In un passo del libro, l’autore scrive:

“L’orrore della mia infanzia fu che io sapevo sarebbe arrivato un momento in cui avrei dovuto anch’io abbandonare i giochi, ma non sapevo come fare […] Niente di ciò che accade dopo i dodici anni importa davvero”.

L’autore è il primo tra i Bambini Sperduti.

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La morte è un altro tema forte che la favola di Peter Pan tocca e romanza: tutti i bambini caduti dalle proprie carrozzine, che non vengono reclamati per una settimana, giungono a Neverland. Le loro anime, come quella del fratellino David, sono destinate a rimanere cristallizzate per sempre nella sfera protetta dell’infanzia, senza mai venir contaminati dal divenire adulti.
Anche per Barrie è lo stesso, poiché la sua parte adulta non è riuscita a compiersi, ma “è rimasta incatenata al dolore dell’infanzia”.

Il primo maggio del 1912 venne presentata la statua dedicata a Peter Pan, realizzata da George Frampton, all’interno dei Giardini di Kensington – Barrie commentò: “Non vi traspare il demone che è in Peter”.

437080380_8e83cb62bfUn demone che la maggior parte delle rivisitazioni, prima fra tutte quella animata dalla Walt Disney Pictures, esorcizza attraverso il ritratto innocente dell’eterno bambino che porta con sé orde di suoi coetanei nel giocoso microcosmo.
Arrivarci è relativamente facile: seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino. L’isola che non c’è è raggiungibile solo da quei bambini che si rifiutano di crescere – un luogo ideale, utopico che non può nascere se non dall’incontaminata immaginazione infantile. Barrie s’ispira a un distretto australiano – Niever, Niever, Land – per il nome, e pennella un’isola colorata affollata da pirati, pellerossa, sirene, fate, gnomi e da un temibile coccodrillo. È un luogo pulsante, in cui tutto è in continua evoluzione, mosso da un movimento perpetuo al cui centro troneggia l’enigmatica figura di Peter Pan: i Bambini Sperduti cercano Peter, inseguiti dai pirati, a loro volta inseguiti dai pellerossa.

peter-pan5L’adattamento che ci mostra l’inedito volto demoniaco di quello che tutti conosciamo come “il difensore dei bambini” è la serie televisiva Once Upon A Time – in cui Peter Pan è un’ombra malvagia e l’Isola che non c’è assume le tinte dark e i toni noir dell’atmosfera da cui è avvolta, carica della tensione data dal regime oppressivo di Peter nei confronti dei Bambini Sperduti, ridotti a veri e propri schiavi. La cosa più curiosa e singolare di questa versione è la vera natura di Peter – il quale si scoprirà essere il padre di Tremotino, il personaggio più ambiguo e interessante della serie, che ha rinunciato al figlio pur di rimanere sull’Isola che non c’è. Insomma, siamo nuovamente di fronte a un rifiuto, ma questa volta di natura paterna.
Sicuramente questa è la versione più ardita di Peter Pan, che si discosta totalmente dal modello a cui tutti siamo abituati.

I toni gotici, cupi, da La maledizione della prima luna sono ripresi anche da P. J. Hogan in Peter Pan (2003) – versione cinematografica tra le più fedeli all’opera letteraria, che ha tuttavia costituito un imponente flop, a tal punto da segnare la fine della carriera del regista australiano. Stroncata dalla critica per via di una modernità troppo ostentata: nello slang dei protagonisti e nell’inedita tensione sessuale che si avverte tra Peter e Wendy. Seppur per la prima volta sul grande schermo “Peter assomiglia a sé stesso” – con le fattezze di Jeremy Sumpter – questa versione kolossal “ubriaca gli occhi e manca il cuore”.

Il personaggio che più si presta ad essere deformato dalle diverse riletture della fiaba è Capitan Uncino. In origine, il personaggio di Hook (in lingua originale) è definito come “capitano dei pirati, oscuro tanto nel carattere quanto nell’aspetto”. Un uomo senza scrupoli e senza mano – persa per colpa di Peter Pan che è, per questo, il suo nemico numero uno.
In Once Upon A Time, Colin O’Donoghue dona volto e prestanza ad un’irresistibile Capitano, sexy e impertinente – lontano anni luce dalla sua versione animata.

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In Pan (Joe Wright, 2015), ultimo adattamento cinematografico della storia, il personaggio si configura addirittura come figura amica, quasi paterna di Peter. Indolente, egoista e bugiardo ma in fondo decisivo per la salvezza del piccolo orfano volante.hook-capitan-uncino-06

Il piratesco villain dal fascino sinistro ha persino intitolato uno tra i più originali arrangiamenti del cult d’animazione: Hook – Capitan Uncino (Steven Spielberg, 1991). La pellicola si autoconfigura come una sorta di sequel della storia che tutti conosciamo e amiamo: Peter, figlio dell’impeccabile interpretazione di Robin Williams, è un uomo di mezza età, un po’ miope, con figli a carico e una carriera da avvocato che occupa tutto il suo tempo. Un giorno, però, i suoi figli vengono rapiti e trasportati su Neverland: per andare avanti, perciò, Peter dovrà tornare indietro, in quel luogo magico in cui tutto ebbe inizio. Qui sarà costretto nuovamente ad un faccia a faccia con il più temibile tra i corsari: Giacomo Uncino (Dustin Hoffman) – la vera star del film, istrionico e pomposo, seppur destinato a diventare cibo per l’alligatore da cui è perseguitato. Spielberg si riconferma perfetto trovatore e, sostenuto da un cast di prim’ordine, riesce a dipingere un degno inno alla fantasia.

“Ho creato Peter Pan strofinandovi violentemente insieme, come fanno i selvaggi che producono una fiamma da due stecchi. Questo è Peter Pan, la scintilla venutami da voi”.

Con questa frase, il padre dell’eterno bambino dedica la propria opera – una sorta di mitologia dell’infanzia – ai fratelli Llewelyn Davies. Per intrattenere i due fratelli maggiori, George e John, Barrie raccontava che le finestre della loro casa avevano le sbarre per impedire al loro fratellino più piccolo, Peter, di volare via – poiché, nella dimensione fantastica dell’autore, i bambini prima di nascere sono gli uccelli colorati che sorvolano il cielo dei Giardini di Kensington.

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Neverland – Un sogno per la vita
(Marc Forster, 2004) è una parabola sull’immaginazione: si propone di narrarci le origini di Peter Pan attraverso la biografia del drammaturgo scozzese. Il film narra dell’incontro tra Barrie e la famigliola, e del loro chimerico viaggio verso la felicità. J. M. Barrie ha il volto stralunato di Johnny Depp e Sylvia – la madre dei bimbi, vedova e molto malata – l’eleganza di Kate Winslet. La pellicola ci invita a riflettere con una delicatezza disarmante, trasportandoci sulla linea sottile che divide fantasia e realtà.

Molto labile il confine tra reale e immaginario anche nel recentissimo Pan. La pellicola non ha riscosso un grande successo, tuttavia presenta imprescindibili contaminazioni della biografia e delle intenzioni del padre di Peter Pan – Barrie. In primis, il film si apre tra i corridoi asimmetrici di un orfanotrofio, in cui Peter stringe una profonda amicizia con un altro orfano: il più caro tra gli amici d’infanzia dell’autore è John McMillan, il ragazzino con cui condivise l’esperienza in collegio.
Inoltre, viene revocato la differenziazione tra Peter e il Dio Pan – per i greci esso era il figlio di Ermes e della ninfa Penelope, i quali lo abbandonarono per via del suo aspetto mostruoso (aveva le fattezze di un satiro). Il fauno crebbe in mezzo alla natura e si perse in un amore non corrisposto con la ninfa Siringa: un giorno, per non essere raggiunta da Pan, si trasformò in canne palaustri – il Dio ne estirpò alcune e le legò insieme, creando quella zampogna che è anche il simbolo della divinità Pan del film di Wright.
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Il regista trascina lo spettatore in una sorta di delirante prequel della storia originale – moda hollywoodiana che ha portato i suoi frutti per pellicole come Maleficent – in cui Neverland è un’immensa miniera, dove un truccatissimo Barbanera (Hugh Jackman) dai risvolti rock, costringe i bambini rapiti a lavorare quotidianamente alla ricerca della polvere di fata. Un’isola che non c’è riciclata, caotica e sconclusionata, scandita dal ritmo delle canzoni dei Nirvana, in cui Trilli è stata rimpiazzata da una singolare selvaggia pagana di nome Giglio Tigrato e Capitan Uncino è diventato compagno di sventure di Peter.

L’errore principale di queste pellicole è stato probabilmente quello di ardire, snaturando il dramma nascosto tra le pieghe della storia immaginifica, pirotecnica, arricchita dalle atmosfere oniriche di Neverland e dal carisma dei suoi abitanti. Quando si ha a che fare con una fiaba intimistica di questo calibro, occorre tenerne sempre a mente la morale.
“C’è un’Isola che non c’è per ogni bambino, e sono tutte differenti” : Sir James Matthew Barrie ci ha mostrato la sua, ed è così autentica che è impossibile farne copia.

The Walking Dead 6 – La calma prima della tempesta del 6×07

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A cura di Alexia Altieri
(Follow me on Twitter @alexia0508)
Articolo pubblicato su NewsCinema – a questo link http://bit.ly/1NvOGay

La calma prima della tempesta – ecco, come riassumerei questo episodio. Anzi prenderei in prestito la calzante frase di Rick: “Non abbiamo neanche il tempo di riprendere fiato”. E, mentre qualcuno sta ancora gioendo perchè Glenn è vivo, qualcuno si gongola per aver fatto centro con la Teoria del cassonetto e qualcun altro sta scuotendo la testa, allibito dalla progressiva perdita di credibilità dello show, ecco subito un cliffhanger con il botto (anzi con il crollo) che riporta il livello di tensione alle stelle.

Le sette vite di Glenn

Anche questa volta il nostro ex ragazzo delle pizze se l’è cavata per il rotto della cuffia. Io, personalmente, ho tirato un sospiro di sollievo anche se già nell’aria aleggia il dubbio pungente che dovremo comunque prepararci a direaddio a uno dei nostri beniamini sopravvissuti – probabilmente nella prossima puntata, mid season finale. E se questo personaggio fosse proprio Maggie? Sarebbe un paradosso, però forse costituirebbe una via di fuga per gli show runner, i quali potrebbero così riscattarsi e tornare in pista, rispolverando il caro vecchio mantra: in The Walking Dead non esiste etica, chiunque può morireTorniamo all’episodio – a seguito dei titoli di testa veniamo subito accolti dal familiare sparo alla testa di Nicholas. I due cadono e, come da copione, i famelici non morti si pappano il suicida sotto lo sguardo terrorizzato di Glenn – il quale riesce a sgattaiolare da quell’orrido banchetto e rifugiarsi sotto al cassonetto. Rimane lì, scioccato – gli erranti via via se ne vanno e la ribelle Enid, che è ancora ossessionata dalla sigla JSS, lo trova e gli porge una bottiglietta d’acqua. In tutto ciò, non lo vediamo mai comunicare al walkie talkie – quindi, chi fosse quella voce bisognosa di aiuto che abbiamo sentito alla chiusura della scorsa puntata rimane ancora un mistero.  Tuttavia, ora abbiamo la prova che Norman Reedus è sincero: l’attore ha sempre sostenuto che l’enigmatico Help non provenisse dal ricetrasmittente del nostro coreano preferito.

Nell’Alexandria che vorrei …

Nel frattempo, gli abitanti di Alexandria sembrano essersi trasformati nella famiglia del Mulino Bianco. Deanna ha ritrovato la propria sanità mentale e gira per le strade sorridente, con una planimetria arrotolata, stretta sotto braccio e cerca di esporre a Rick i propri piani per espandere la città. Padre Gabriel affigge locandine che invitano tutti i cittadini a partecipare alla predica. Rick insegna all’amico-nemico di Carl (che sembra pericolosamente trasformarsi sempre più in uno degli One Direction) a maneggiare la pistola. Carol, invece, sospettosa come sempre, si aggira con Judith in braccio e riesce – in quei pochi minuti di apparizione che le vengono concessi – a scovare la tana del lupo, in casa di Morgan.

Nel frattempo la telecamera continua a inquadrare un rivolo di sangue che scorre attraverso la palizzata che divide Alexandria dall’orda di zombie – come a indicare che, nonostante la pace apparente, la minaccia è sempre là fuori e continua a incombere sulla città come una spada di Damocle pronta a cadere sulla testa degli abitanti. Tutta questa armonia viene interrotta, per un attimo, da una nota grave: in questa puntata, Spencer, il figlio di Deanna, si è aggiudicato l’opportunità di fare la mossa stupida, avventata, non sense della settimana! Lo vediamo mentre tenta di superare la palizzata con una corda, sospeso sull’orda di zombie – degno dei peggiori film della Marvel. Ovviamente l’escamotage assunto dal ragazzo per superare la folla risulta precario e rischia di finire in pasto alle bestie. Gli zombie sembrano sempre di più una moltitudine di ragazzine impazzite durante un concerto, con la bocca spalancata e le braccia al cielo e, qualcosa mi dice, che se Spencer vi fosse caduto sopra non sarebbe finita come per Morgan dei Bluvertigo.

Breccia

Verso la fine dell’episodio tutti i pezzi del puzzle sembrano finalmente poter andare al proprio posto: Glenn è ormai giunto alle porte di Alexandria, in compagnia di Enid e di un mazzo di palloncini a elio, verdi. Maggie, che ogni giorno dall’alto della palizzata fissa l’infinito in attesa di scorgere la sagoma del marito all’orizzonte, vede il mazzo di palloncini verdi alzarsi nel cielo e gioisce: per lei, inequivocabile avvisaglia che Glenn sta finalmente tornando da lei. Tutto bello, finchè … la torre crolla, distruggendo la recinzione – divisorio tra vita e morte – e aprendo un varco ai vaganti.

Prego, entrate pure.

6×08 – Start to Finish

Dal promo è facile evincere i due capisaldi del puntatone di mid season finale: Panico e Caos. Su internet iniziano a serpeggiare grossi spoiler, tuttavia non ho voluto rovinarmi la sorpresa – pertanto, mi limiterò a riprendere il claim che gli autori hanno scritto per il prossimo episodio: “Dopo aver avuto qualche momento di pace, il pericolo fa breccia ad Alexandria di nuovo. Solo che questa volta il problema potrebbe essere troppo grande da risolvere”.

The show must go on.

The Walking Dead 6 – L’animo gentile di Daryl Dixon e una finestra sul 6×07

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A cura di Alexia Altieri
(Follow me on Twitter @alexia0508)
Articolo pubblicato su NewsCinema – a questo link http://bit.ly/1Sms2zp

Il sesto episodio di The Walking Dead – Always Accountable, scorre via abbastanza anonimamente fino a pochi minuti dai titoli di coda, ma prima analizziamo quanto è successo.

SPLIT SCREEN

Finalmente gli autori tornano a puntare i riflettori su quei poveri tre disgraziati di Daryl, Abraham e Sasha. Li avevamo lasciati così: Daryl in sella alla sua moto, sempre più randagio, e la “strana coppia” formata dal fulvo omone e dalla ragazza inguaribilmente tendente all’autolesionismo a bordo della loro station wagon – tutti e tre mossi dal vano tentativo di allontanare l’orda di zombie che si sta dirigendo verso Alexandria, attratta dal famoso clacson. Come se non bastasse la minaccia di erranti e Lupi, eccone una nuova: un commando di uomini attacca il trio e lo costringe a dividersi. Piccolo inciso: è possibile che a capo di questo nuovo gruppo ci sia Negan, il miglior villain del fumetto a cui non è stato ancora dato un volto nella serie. Così, Daryl brancola nella foresta – che ha più le sembianze di una steppa bruciacchiata (Glenn è riuscito ad appiccare il fuoco?) – mentre i due si rifugiano in un appartamento, dove si intratterranno in articolate conversazioni nonsense, in attesa che il loro compagno li ritrovi.

L’ANIMO GENTILE DI DARYL DIXON

Ritrovatosi solo nella foresta, Daryl stupisce in maniera inedita, dimostrandosi goffo e sprovveduto di fronte ai pericoli reali che gli si presentano: forse fin troppo assuefatto a nemici barcollanti, dall’aspetto cereo e sanguinolento. L’arciere viene sorpreso da tre sopravvissuti che lo colpiscono e lo legano – convinti che sia un esponente dei temibili Wolves. Per fortuna il bel tenebroso riesce a liberarsi e fuggire … finché non si rende conto che nel borsone rubato ai tre assalitori, ci sono dei flaconi di insulina. Ed ecco che torniamo al solito punto: ogni atto di compassione, umanità, gentilezza compiuto in questa saga, provoca sempre l’effetto opposto. Il dogma Fai del bene e riceverai bene non è mai stato così inesatto. Com’era facilmente intuibile, il buon Daryl torna dai suoi assalitori e riporta il borsone con le medicine necessarie alla sopravvivenza della ragazza diabetica, che ne fa parte. Risultato? Cornuto e mazziato – non solo lo abbandonano al suo destino nel bosco, ma gli rubano anche moto e balestra, sancendo la fine di un’icona.

HELP

Mentre Abraham e Sasha sono impegnati in un inconcludente flirt, ecco apparire Daryl-dalle-mille-risorse a bordo di un camioncino di benzina. Il trio, finalmente riunito, si dirige ora verso Alexandria: Daryl impugna il walkie talkie e prova a contattare Rick. Una voce risponde, non è Rick – chiede Aiuto. Sei tu Glenn? Io ho visto l’episodio in lingua italiana e, personalmente, non mi è parso di riconoscere il tono di Glenn – tuttavia, vulture.com ha isolato quel Help e l’ha messo a confronto con un’estrapolazione della voce di Glenn che pronuncia quella parola: per sentirlo, cliccate qui. Nonostante Norman Reedus continui a smentire che quella voce appartiene al nostro eroe coreano, non possiamo fare a meno di aggrapparci a questa speranza – nella consapevolezza che nel prossimo episodio, finalmente, sapremo la verità.

EPISODIO 6×07 – Heads Up

Mancano solo due episodi al mid season finale e la tensione cresce. Dal promo dedicato al prossimo Heads Up, vediamo con piacere che – dopo sette episodi – finalmente il gruppo è riuscito a riunirsi sotto lo stesso grande “tetto” di Alexandria. Nonostante questo sembra che non sia ancora arrivato il momento di tirare il fiato: dalle poche immagini contenute nel video promo, comprendiamo subito che faremo ancora incetta di zombie e panico. Purtroppo, il destino Glenn sembra ancora destinato a rimanere fuori campo. In totale antitesi rispetto ad un promo all’ultimo respiro, lo sneak peek vede Rick, Morgan e Michonne seduti intorno al tavolo, immersi in una discussione animata. Lo spirito pacifista di Morgan inizia a fare a pugni con l’anima irruenta di Rick: questo faccia a faccia potrebbe essere il primo sintomo di una guerra civile?

Un’Occasione da Dio di Terry Jones

Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Settembre 2015 – Anno II – N.08 – [Pagg. 72-74] (download qui)

Nessuna arca da costruire e nessun Dio in smoking bianco con le sembianze di Morgan Freeman: Un’occasione da Dio si discosta completamente dai precedenti Una settimana da Dio e il suo spin-off Un’impresa da Dio, portando sul grande schermo una comicità old school, senza alcuna traccia di cinismo o malizia.
Il film è diretto da Terry Jones, il quale si è dichiaratamente ispirato al romanzo L’uomo che faceva miracoli redatto da Herbert George Wells nel 1898.
La pellicola si apre su uno scenario fantascientifico con un consiglio intergalattico di bizzarri alieni animati in live action che discutono sul futuro della Terra: prima di annientarla, però, decidono di conferire a un terrestre a caso il potere divino di poter far accadere ogni cosa voglia. In questo modo, qualora le azioni dell’uomo in questione fossero ritenute animate da fini nobili, il nostro pianeta avrebbe potuto salvarsi dalla Fine. Sfortunatamente, l’uomo designato come presunto “salvatore del pianeta” è un insegnante inetto e pasticcione, dalla proverbiale sfortuna in ogni campo, di nome Neil Clark (Simon Pegg).


La trama scorre leggera attraverso una serie di siparietti, alcuni esilaranti, altri macchiati di prevedibilità e cliché già esaurientemente rivisitati in pellicole di questo genere. Così, Neil – l’uomo nelle cui mani risiede l’enorme responsabilità di salvare il mondo dalla catastrofe – beneficia dei suoi poteri per far in modo che i bisogni del suo cane Dennis (Mojo) si auto-puliscano, per far resuscitare i morti o provare l’ebrezza di essere il Presidente degli Stati Uniti per pochi minuti. Tra una strofinata e l’altra alla sua personalissima Lampada di Aladdin, Neil finisce per trasformare il suo collega in una specie di divinità induista, per aprire una voragine nel soffitto di Catherine (Kate Beckinsale), la vicina di casa che vorrebbe conquistare, solo per poterla ammirare di nascosto, e dà la parola al proprio fedele amico a quattro zampe. Dennis è la vera star del film, non solo per le brillanti battute che non mancano mai di far nascere un sorriso sul viso dello spettatore, ma anche perché la sua voce originale appartiene al compianto e indimenticabile Robin Williams.
Un’opera, questa, da gustare tutta d’un fiato, dove i cattivi non fanno davvero paura e il mondo sarà salvato nientemeno che dall’astuzia del simpatico cagnolino, Dennis: insomma, una sospensione dell’incredulità è necessaria per goderne appieno! Poi, se tornando a casa, vi verrà naturale agitare la mano per aprire la porta d’ingresso, allora les jeux sont fait!

TED 2 – Il Ritorno dei Rimbombamici

A cura di Alexia Altieri

Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Giugno 2015 – Anno II – N.06 – [Pagg. 4-7] (download qui)
Ted sta per venire … di nuovo” – la tagline contenuta nel teaser poster dedicato al ritorno dell’orsetto più irriverente di sempre, è già di per sé abbondantemente esplicativa.
Ted – l’orsetto nato dal genio di Seth MacFarlane, creatore della celebre serie animata per adulti – I Griffin, sta per tornare sul grande schermo dopo il successo planetario ottenuto nel 2012.
Seth MacFarlane – che ricoprirà il molteplice ruolo di regista, produttore, sceneggiatore e doppiatore (oltre che interprete vero e proprio, attraverso il motion capture) del volgare orsacchiotto, riprende il topos dell’amico immaginario e dissacra e re-inventa totalmente il Teddy Bear: non più il morbido peluche, che i bimbi di tutto il mondo stringono tra le braccia, cullati da una nuova fiaba della buona notte, ma uno sboccato e molesto orsetto di pezza dalle voglie singolari e piuttosto politically incorrect.

Ted prende vita nella magia di una notte di Natale, in cui il desiderio del piccolo John Bennet (Mark Wahlberg) di trovare rimedio alla sua incolmabile solitudine, viene esaudito – ed ecco, che ha inizio una profonda amicizia – tutta al maschile, tra l’ormai trentacinquenne John, che ha qualche difficoltà a sopprimere l’eterno Peter Pan che abita in lui, ed il suo carismatico (quanto maleducato e sconveniente) orsetto di peluche parlante – amico immaginario che ha riempito la sua infanzia, ed è diventato ora, un inevitabile ostacolo per la sua effettiva maturazione.

Se il primo lungometraggio in live-action di MacFarlane è stato rimpinzato di scene esilaranti e inopportune sulle tematiche più disparate – tra cui, le sostanze psicogene, la prostituzione, l’omosessualità, la religione – da cui trapela un vizioso ritratto di Ted, amante delle droghe leggere e del sesso facile, questo sequel ci racconta il suo desiderio di stabilità, di paternità e di famiglia. Se l’animale parlante progredisce e si evolve – diventando un vero adulto, sposato e detentore del valore della famiglia, il suo migliore amico umano pare rimanere nella vacua dimensione di “bambino mai cresciuto”. In una storia come questa la cosiddetta sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore è d’obbligo!

Il fulcro gravitante di tutta la vicenda è la questione legale che un “insolitamente simil serio” Ted è chiamato ad affrontare per poter diventare padre a tutti gli effetti. Passi il Vi dichiaro orsacchiotto e moglie – poiché, al giorno d’oggi “La gente ormai non si scandalizza più per niente”, come recita il voice over del trailer ufficiale della pellicola – ma la paternità rimane ancora un concetto troppo delicato da affrontare.
La tematica della diversità palpita al di sotto di una trama apparentemente banale e demenziale – e, a mio parere, non è avventato pensare che al di là della lotta giuridica dell’orsetto (con tanto di Morgan Freeman nei panni di avvocato dei diritti civili) per dimostrare la propria “umanità” e quindi idoneità al diventare padre, ci sia l’attualissima lotta da parte delle coppie omosessuali per la conquista degli stessi diritti alla genitorialità. Ma per trovare piena conferma a questa mia tesi, mi riservo di aspettare l’uscita in sala del film – il 25 giugno in Italia.

L’adorabile e scorrettissimo orsetto senza (paradossalmente) peli sulla lingua è diventato un’indiscutibile icona trash del cinema d’animazione – l’orso più cafone della storia, ed il primo che è riuscito a conquistare milioni di spettatori attraverso la propria irriverenza che stimola la risataccia, e non tramite la sconfinata bontà, ingenuità e dolcezza che da sempre caratterizza l’orso di peluche nell’immaginario filmico e non, di grandi e piccini.
Ancora una volta, è un orsetto a dominare la scena – anche se non per il coraggio di Iorek Byrnison, l’orso corazzato di La bussola d’oro (2007),

e senza una storia triste alle spalle che ne giustifichi i comportamenti disdicevoli, come quella dell’incattivito orsacchiotto Lotso Grandi Abbracci di Toy Story 3 (2010).

Ted è certamente pestifero e giocherellone – indimenticabile la scena al supermercato del primo capitolo di Ted, quando l’orsetto si destreggia in una lasciva escalation di movenze sessuali per conquistare una cassiera –

  ma con un’accezione dei termini nettamente in contrapposizione rispetto a quanto s’intende per il piccolo ed ingenuo Koda di Koda fratello orso (2003). Ben lontano, inoltre, dalla saggezza dell’intramontabile ed iconico Winnie The Pooh, il personaggio Disney dolce come il miele, e dalla buffa goffaggine del pasticcione Baloo di Il libro della giungla (1967) – Ted è pieno di vizi, quelli più riprovevoli degli esseri umani, anche se ora sembra aver messo la testa a posto …


Tuttavia, la posizione più antitetica rispetto a Ted, è ricoperta dall’educato e servizievole orsetto Paddington – icona british, inconfondibile, con cappellino rosso e montgomery blu – l’uno scurrile, vizioso ed irriverente, l’altro pasticcione, gentile e amorevole. Gli occhioni sensibili (e umani) dell’orsetto bruno del Perù, nato dalla penna dello scrittore Michael Bond, ammorbidiscono il cuore, mentre quelli vispi, “a bottone” di Ted, non possono non fare simpatia.

 Entrambi quindi, personaggi riuscitissimi, con una marcia in più, che adorerei vedere a confronto in un ideale crossover in puro stile marvelliano – un irresistibile universo parallelo, in cui il sofisticato orsetto inglese potrebbe confrontarsi con l’impudico peluche americano …
Chissà.

TED 2 – Il Ritorno dei Rimbombamici

A cura di Alexia Altieri

Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Giugno 2015 – Anno II – N.06 – [Pagg. 4-7] (download qui)
Ted sta per venire … di nuovo” – la tagline contenuta nel teaser poster dedicato al ritorno dell’orsetto più irriverente di sempre, è già di per sé abbondantemente esplicativa.
Ted – l’orsetto nato dal genio di Seth MacFarlane, creatore della celebre serie animata per adulti – I Griffin, sta per tornare sul grande schermo dopo il successo planetario ottenuto nel 2012.
Seth MacFarlane – che ricoprirà il molteplice ruolo di regista, produttore, sceneggiatore e doppiatore (oltre che interprete vero e proprio, attraverso il motion capture) del volgare orsacchiotto, riprende il topos dell’amico immaginario e dissacra e re-inventa totalmente il Teddy Bear: non più il morbido peluche, che i bimbi di tutto il mondo stringono tra le braccia, cullati da una nuova fiaba della buona notte, ma uno sboccato e molesto orsetto di pezza dalle voglie singolari e piuttosto politically incorrect.

Ted prende vita nella magia di una notte di Natale, in cui il desiderio del piccolo John Bennet (Mark Wahlberg) di trovare rimedio alla sua incolmabile solitudine, viene esaudito – ed ecco, che ha inizio una profonda amicizia – tutta al maschile, tra l’ormai trentacinquenne John, che ha qualche difficoltà a sopprimere l’eterno Peter Pan che abita in lui, ed il suo carismatico (quanto maleducato e sconveniente) orsetto di peluche parlante – amico immaginario che ha riempito la sua infanzia, ed è diventato ora, un inevitabile ostacolo per la sua effettiva maturazione.

Se il primo lungometraggio in live-action di MacFarlane è stato rimpinzato di scene esilaranti e inopportune sulle tematiche più disparate – tra cui, le sostanze psicogene, la prostituzione, l’omosessualità, la religione – da cui trapela un vizioso ritratto di Ted, amante delle droghe leggere e del sesso facile, questo sequel ci racconta il suo desiderio di stabilità, di paternità e di famiglia. Se l’animale parlante progredisce e si evolve – diventando un vero adulto, sposato e detentore del valore della famiglia, il suo migliore amico umano pare rimanere nella vacua dimensione di “bambino mai cresciuto”. In una storia come questa la cosiddetta sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore è d’obbligo!

Il fulcro gravitante di tutta la vicenda è la questione legale che un “insolitamente simil serio” Ted è chiamato ad affrontare per poter diventare padre a tutti gli effetti. Passi il Vi dichiaro orsacchiotto e moglie – poiché, al giorno d’oggi “La gente ormai non si scandalizza più per niente”, come recita il voice over del trailer ufficiale della pellicola – ma la paternità rimane ancora un concetto troppo delicato da affrontare.
La tematica della diversità palpita al di sotto di una trama apparentemente banale e demenziale – e, a mio parere, non è avventato pensare che al di là della lotta giuridica dell’orsetto (con tanto di Morgan Freeman nei panni di avvocato dei diritti civili) per dimostrare la propria “umanità” e quindi idoneità al diventare padre, ci sia l’attualissima lotta da parte delle coppie omosessuali per la conquista degli stessi diritti alla genitorialità. Ma per trovare piena conferma a questa mia tesi, mi riservo di aspettare l’uscita in sala del film – il 25 giugno in Italia.

L’adorabile e scorrettissimo orsetto senza (paradossalmente) peli sulla lingua è diventato un’indiscutibile icona trash del cinema d’animazione – l’orso più cafone della storia, ed il primo che è riuscito a conquistare milioni di spettatori attraverso la propria irriverenza che stimola la risataccia, e non tramite la sconfinata bontà, ingenuità e dolcezza che da sempre caratterizza l’orso di peluche nell’immaginario filmico e non, di grandi e piccini.
Ancora una volta, è un orsetto a dominare la scena – anche se non per il coraggio di Iorek Byrnison, l’orso corazzato di La bussola d’oro (2007),

e senza una storia triste alle spalle che ne giustifichi i comportamenti disdicevoli, come quella dell’incattivito orsacchiotto Lotso Grandi Abbracci di Toy Story 3 (2010).

Ted è certamente pestifero e giocherellone – indimenticabile la scena al supermercato del primo capitolo di Ted, quando l’orsetto si destreggia in una lasciva escalation di movenze sessuali per conquistare una cassiera –

  ma con un’accezione dei termini nettamente in contrapposizione rispetto a quanto s’intende per il piccolo ed ingenuo Koda di Koda fratello orso (2003). Ben lontano, inoltre, dalla saggezza dell’intramontabile ed iconico Winnie The Pooh, il personaggio Disney dolce come il miele, e dalla buffa goffaggine del pasticcione Baloo di Il libro della giungla (1967) – Ted è pieno di vizi, quelli più riprovevoli degli esseri umani, anche se ora sembra aver messo la testa a posto …


Tuttavia, la posizione più antitetica rispetto a Ted, è ricoperta dall’educato e servizievole orsetto Paddington – icona british, inconfondibile, con cappellino rosso e montgomery blu – l’uno scurrile, vizioso ed irriverente, l’altro pasticcione, gentile e amorevole. Gli occhioni sensibili (e umani) dell’orsetto bruno del Perù, nato dalla penna dello scrittore Michael Bond, ammorbidiscono il cuore, mentre quelli vispi, “a bottone” di Ted, non possono non fare simpatia.

 Entrambi quindi, personaggi riuscitissimi, con una marcia in più, che adorerei vedere a confronto in un ideale crossover in puro stile marvelliano – un irresistibile universo parallelo, in cui il sofisticato orsetto inglese potrebbe confrontarsi con l’impudico peluche americano …
Chissà.

Gabrielle Avant Coco – La moda passa, Lo stile resta

A cura di Alexia Altieri

Quella di Gabrielle Bonheur Chanel – celebre in tutto in mondo con lo pseudonimo di Coco –, è stata davvero una vita da film, e in effetti lo è diventata anche nel concreto, nel biopic diretto dall’autrice lussemburghese Anne Fontaine. Nel 2009 uscì nelle sale cinematografiche Coco avant Chanel – L’amore prima del mito, con Audrey Tautou nei panni della rivoluzionaria stilista. “Audrey è stata bravissima” – sostiene la regista – “non avrei mai potuto realizzare questo film senza di lei, perché lei è Coco“. Con un taglio di capelli alla maschietta e gli occhi attenti, l’attrice riesce a infondere alla sua Coco lo spirito eversivo di una donna indipendente e charmant, coraggiosa e ostinata, quale era Gabrielle ancor prima di diventare il mito, Coco Chanel, l’immortale icona dell’immaginario francese nonché mondiale.

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Doraemon – oltre il cartone animato

A cura di Alexia Altieri
Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Maggio 2015 – Anno II – N.05 – [Pagg. 45-48]
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Doraemon è il simpatico gattone robot proveniente dal futuro, tutto blu e con una buffa elica sulla testa, che ha fatto innamorare milioni di bambini negli anni Ottanta, e continua a riscuotere successo nel cuore dei grandi, nostalgici e dei piccini di oggi.

È tornato nelle sale italiane il 7 maggio 2015, con una nuova appassionante avventura che, seppure si configura come remake del lungometraggio animato del 1982 – Doraemon nel paese delle meraviglie di Hideo Nishimaki, ha un tono sempre attuale, che non pecca di ripetitività o ridondanza. Doraemon – Le avventure di Nobita e dei cinque esploratori di Shinnosuke Yakuwa, vede ancora una volta protagonisti del grande schermo Nobita, il ragazzino maldestro, estremamente pigro ed inetto, la cui felicità ed auto-realizzazione sono il leit motiv per cui Doraemon è tornato nel passato; Shizuka – amata e sospirata da Nobi Nobita, il bulletto Gian ed il viziato Suneo. Questa volta, però, gli avventurosi ragazzini saranno affiancati in questo viaggio picaresco nel bel mezzo di una giungla, da una deliziosa new entry: un tenero (non-robotico) cucciolo di cane, Peko.

Ancora una volta, Doraemon dovrà ricorrere ai suoi magici ciuski, contenuti nella sua gattopone – straordinaria tasca quadrimensionale, che gli fiorisce sul panciotto, come fosse la sacca di un marsupiale – per aiutare i suoi amici a superare le insidie che incontreranno tra le fronde della loro rocambolesca esplorazione, nel cuore di una misteriosa foresta africana.

Doraemon nasce dalla penna di Fujiko F. Fujio, disegnatore giapponese, autore anche di Carletto il principe dei mostri – e fa il suo debutto nel 1969 come manga. Il fare grottesco, una sfrenata passione per i Dorayaki, le bolle dal naso e gli straordinari marchingegni tecnologici che risolvono ogni problema, hanno fatto del buffo e divertentissimo gatto un vero e proprio personaggio simbolo – trasfigurato, in seguito, in videogames, serie animate, merchandising, lungometraggi d’animazione. Nel 2008 è stato addirittura nominato “ambasciatore degli anime nel mondo” dal Ministro degli Esteri giapponese!

L’eroe più tenero dell’Asia è ormai parte integrante dell’immaginario collettivo nipponico: il termine doraemon è diventato un vero e proprio neologismo con il quale i giapponesi indicano “qualcosa che ha il potere di realizzare sogni”.

E se Doraemon è un felino magico in grado di esaudire ogni desiderio, la caratterizzazione dell’amico Nobita è diametralmente opposta, ed è esplicitato fin dal nome – che letteralmente significa “uno che se la prende comoda”. Il piccolo perdigiorno è colui che Doraemon – oltrepassando lo spazio-tempo – è venuto a salvare dalla propria indolenza. Il gattone blu viene spedito nel presente, da un discendente di Nobita che, nel XXII secolo (un futuro, per noi, ormai maledettamente attuale) paga ancora le conseguenze degli sbagli del suo avo inconcludente. Dietro alla preghiera di riuscire cambiare, in qualche modo, il futuro – Doraemon ha tenuto fede alla promessa, cambiando quello di Nobita ed, in qualche modo, anche quello di noi, fedeli spettatori della serie animata che è stata simbolo degli anni Ottanta. Come ogni cartone che si rispetti, le allegre scorribande che riempivano i nostri pomeriggi, di ritorno dalla scuola, oltre ad intrattenerci e farci provare il profondo desiderio di aprire un cassetto e ritrovarci un simpatico automa felino tutto per noi, hanno saputo trasmetterci anche qualche insegnamento. Il più importante è senz’altro quello relativo all’esigenza di credere in sé stessi, in quanto unici fautori del proprio destino. Infatti, se in un primo momento i super tecnologici ciuski appaiono come la scorciatoia per uscire da ogni tipo di guaio, farne un uso smodato potrebbe portare fastidiosi effetti collaterali – tanto da peggiorare, talvolta, le questioni alle quali si cercava una soluzione “magica”.
Quello che salta all’occhio, ed indubbiamente fa riflettere, è come la tecnologia fosse associata alla magia – ma, soprattutto, come Doraemon rappresentasse in qualche modo, un monito per le generazioni, figlie del progresso tecnologico.

Il cartone animato Doraemon arriva in Italia nel 1982 – una versione leggermente snaturata, dall’italianizzazione dei nomi dei personaggi principali: Nobita diventava Guglia (Guglielmo), Shizuka era Susi, Gian e Suneo mutavano in Giangi e Zippo. Fortunatamente, nella seconda edizione italiana della serie animata – del 2003, i nomi originali giapponesi vennero ripristinati.
Fin dal 1980, in Giappone esce a cadenza annuale, un film per il cinema dedicato alle epiche ed esotiche imprese del micione robotico, con tanto di sonaglio. Tuttavia, anche per quanto riguarda l’Italia, Doraemon – Le avventure di Nobita e dei cinque esploratori non sarà il primo lungometraggio – poiché, nel 2014 abbiamo assistito alla prima reincarnazione in computer grafica 3D del personaggio animato, in Doraemon – Il Film (Takashi Yamazaki, Ryuichi Yagi). Un film che, al di là di paradossi temporali e concetti che han dell’assurdo (ad esempio, l’insolita ossessione che Nobita – ancora scolaro elementare – ha per il matrimonio con Shizuka), si è contraddistinto per attenzione ai dettagli e coerenza tematica e sintattica con la serie animata. A partire dal fatto che i doppiatori dei personaggi principali sono gli stessi che hanno prestato la voce nei cartoons, la pellicola è intrisa in quell’atmosfera e riesce – quindi – a toccare le corde dell’anima dei più nostalgici. Questo film si proponeva come “opera definitiva” – sunto del percorso di maturazione di Nobita, grazie all’aiuto del fedele Doraemon al suo fianco.

Tuttavia, probabilmente non si potrà mai davvero apporre la parola fine alla leggenda di Doraemon e delle sue avventure. C’è chi s’immagina che i due amici rimarranno eternamente insieme, in uno spazio temporale che ha del bivalente; chi s’immagina il gatto robot, come figlio dell’immaginazione di un bambino, molto introverso e frustrato. Chi, addirittura, s’immagina un finale ultraterreno – e vede il giovane umano in viaggio verso un’ulteriore dimensione.

Qualsiasi sia l’epilogo che ognuno di noi desidera dare a questa, che è soprattutto la storia di una fantastica amicizia – una cosa è certa, il mito del gattone goloso, che esaudisce desideri, rimarrà immortale, per molte generazioni a venire.

Jennifer Aniston – inedita interpretazione di un dramma esistenziale

A cura di Alexia Altieri
Articolo pubblicato su NewsCinema Magazine di Maggio 2015 – Anno II – N.05 – [Pagg. 65-68]
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Cake è un film che, a dispetto della sua traduzione italiana letterale – torta, non si propone come pellicola rosa, dal sentimentalismo zuccheroso e dai toni delicati. Piuttosto, ci induce a compiere un viaggio tra le ombre dell’amara vita di Claire Simmons (Jennifer Aniston), impregnata dal dolore profondo e lugubre, di un tragico incidente che riemerge continuamente dal passato e finisce per attanagliare la vita della triste sopravvissuta, e bruciare cronicamente nelle sue cicatrici.

Il regista, Daniel Barnz, ci introduce tra le pagine di una vita già devastata, di una tragedia che ha già avuto inizio – scegliendo volontariamente di lasciare l’incidente fuori campo, e quindi di consegnare lo snodo principale dell’intera vicenda ad un nebuloso e misterioso passato, che rimane aggrappato al presente della protagonista, e conferisce alle sue giornate il retrogusto amaro di una vita da sopravvissuta – non da miracolata, alla quale è stata condannata. Cake è una pellicola drammaticamente introspettiva, bloccata in un universo in cui il continuum temporale perde senso o, più semplicemente non esiste. La diegesi non è che il risultato di un estemporaneo avvicendarsi di attimi, senza tempo, senza punti di riferimento – senza vita.

Jennifer Aniston è una protagonista del tutto inedita – con questa interpretazione, l’attrice compie un salto di qualità, che la vede liberarsi dal peso di una notorietà inchiodata allo storico personaggio di Rachel Green (protagonista della celebre sitcom Friends, a cui la Aniston ha prestato corpo e anima) ed a quei ruoli minori, privi di qualsivoglia spessore psicologico, in commedie fini a sé stesse. La Aniston spicca il volo verso una nuova dimensione, e diventa la vera mattatrice di un film che non ha nulla a che vedere con i toni frivoli ed ambigui di commedie stile Come ammazzare il capo e vivere felici (Seth Gordon, 2011). L’attrice traina letteralmente il film, facendosi carico di tutto il suo potenziale drammatico, che riesce a restituire allo spettatore attraverso gli occhi tristi, solcati da profonde occhiaie ed attraversati da un’indicibile sofferenza, di Claire. La donna è un ex avvocato di successo che, a seguito di quel maledetto incidente che le è costato più delle dolorose cicatrici che solcano il suo corpo – poiché le ha strappato via suo figlio, si persa al centro di un tunnel in cui non riesce a scorgere via d’uscita ed, allo stesso tempo, in cui si è inoltrata a tal punto da non poter più tornare indietro. Claire è trascurata nell’aspetto, cinica, scorbutica, in preda ad una dipendenza da sostanze psicotrope, attraversata da pulsioni autodistruttive, ossessionata da un dolore duro e tangibile al quale reagisce con rabbia. Sola e tormentata dai demoni del suo passato, intrappolata negli abissi di un inarrestabile declino psicologico, non riesce a perdonarsi ed – allo stesso tempo – è incapace di compiere quel gesto estremo e definitivo, che metterebbe a tacere la sua anima disperata. Allontana il marito, gli amici e si fa cacciare dal gruppo di supporto al femminile per persone affette da dolore cronico, a seguito di un’aspra sfuriata ai danni di Nina (Anna Kendrick), un ragazza morta suicida che faceva parte dello stesso gruppo. La notizia del suicidio giunge a Claire come un pugno allo stomaco, la costringe a guardarsi allo specchio, la ossessiona. Il fantasma di Nina diventa per Claire un alter ego reale: le appare nelle oniriche allucinazioni causategli da antidepressivi e narcotici, e la esorta a farla finita – mentre la macchina da presa segue, con precisione chirurgica, i moti dell’anima della protagonista, sempre in bilico tra vita e morte. Il regista non intende fornirci la chiave risolutiva per superare tragedie del calibro di quella vissuta da Claire, piuttosto vuole mostrarci quanto sia necessario imparare a conviverci. Quando la protagonista sceglie di incontrare il marito di Nina (interpretato da Sam Worthington), si ritrova di fronte ad un’altra anima afflitta e persa, vittima dello straziante e lugubre abbandono della madre di suo figlio. Claire troverà proprio in quell’uomo il perno d’appoggio tramite il quale risollevarsi.

Cake si qualifica come road movie in senso lato – poiché, una parte del film, quella dominata dalle ombre, è attraversata dalle lunghe strade di Los Angeles che la protagonista percorre in auto, guidata dall’unica persona che non l’ha mai abbandonata, la sua domestica, Silvana – interpretata da Adriana Barraza, l’attrice candidata agli Oscar con Babel di Alejandro Inarritu.

Silvana prende in mano le redini della vita di Claire – non solo tenendo in ordine la sua casa, ma soprattutto guidando la donna: questo si traduce in lunghi viaggi oltre frontiera, per procurarle antidolorifici illegali, al fine di ingannare il dolore ed alleviare il tormento dello spirito del suo datore di lavoro. Durante questi viaggi in auto, Claire rimane distesa sul sedile posteriore, impartisce ordini, alternati a lamenti, e si rifiuta di osservare fuori dal finestrino, negandosi – un’altra volta – un qualsiasi contatto con il mondo esterno. Intrappolata nel suo mondo interiore abitato letteralmente da fantasmi, il viaggio che la protagonista compierà davvero, compresso nello spazio di 92 minuti di pellicola, è metafisico, spirituale. Un viaggio che la porterà ad attraversare quel tunnel in cui si era persa, dove brancolava nel buio, trascinando il proprio corpo senza coordinate da seguire, senza una meta. Un viaggio che – giorno dopo giorno – ridonerà luce al suo futuro, insegnandole che, quella della rabbia e dell’auto-distruzione, non è la strada giusta da intraprendere per elaborare un lutto terribile, come la perdita di un figlio. Scavare in ogni incavo di disperazione e ritrovare l’amore dentro sé stessi è l’unica via. E l’unico modo per sconfiggere la morte è arrendersi alla vita.