Big Eyes: specchio di un’animo tormentato

Titolo originale: Big Eyes

Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski
Fotografia: Bruno Delbonnel
Montaggio: JC Bond
Scenografia: Rick Heinrichs
Costumi: Colleen Atwood
Musiche: Danny Elfman
Cast: Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Houston, Jon Polito, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp
Produzione: Scott Alexander, Tim Burton, Lynette Howell, Larry Karaszewski
Paese di Produzione: U.S.A.
Anno: 2014
Durata: 105′

A cura di Alexia Altieri

Big Eyes è una parabola sull’autorialità dell’opera d’arte, e non solo. Al di là di una trama risolta in modo apparentemente piatto e convenzionale, Tim Burton sparge svariati punti di riflessione: il concetto di estetica dell’arte, la riflessione benjaminiana sull’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica, e quindi la mercificazione della stessa, la condizione della donna negli anni Cinquanta in America. Burton si configura, ancora una volta, come narratore d’eccellenza di una storia vera, triste e a suo modo rivoluzionaria. Ci racconta l’ossessione di una moglie infelice ed, allo stesso tempo, della più grande frode contemporanea. Di fatto, il regista è realmente amico della collezionista Margaret Keane, da sempre affascinato dalla sua Big Eye Art, oltre che suo fedele acquirente. Tra i quadri della pittrice acquistati da Burton, c’è anche un ritratto, confezionato appositamente, dell’ex moglie Helena Bonham Carter che, dopo anni di collaborazione, non troviamo tra i personaggi principali del film proprio per via della loro recente separazione. Il regista è da sempre un estimatore della sensibile pittrice:

“Quello che probabilmente mi ha influenzato è stato l’insieme di emozioni che ti travolgono quando guardi quei dipinti. C’è una sorta di misteriosa qualità e tristezza, così come oscurità, humor e colore. Tutte queste cose insieme hanno a che fare con le persone”.

I dipinti di Margaret (Amy Adams) ritraggono soprattutto bambine – ispirata alla figlioletta Jane e a sé stessa – dagli occhioni tristi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, pertanto Margaret dipinge, a tinte cupe, i propri demoni interiori: qualcosa la ossessiona, ma Burton non lo svela.
Non è un mistero che per Burton gli occhi grandi siano da sempre un marchio di fabbrica. Lo stesso regista sostiene che i piccoli protagonisti con gli occhi esagerati e sproporzionati di quelle tele, hanno ispirato molti suoi personaggi – tra cui quelli di Beetlejuice (1988) e del film d’animazione in stop motion Tim Burton’s Nightmare Before Christmas (1993). È proprio dagli occhi che il regista ha sempre scelto i propri attori: dall’espressività di quelli di Johnny Depp – in particolar modo nella magistrale interpretazione dell’umanoide dal cuore di biscotto e l’aspetto mostruoso in Edward mani di forbice (1990) – a quelli grandi e lucenti del batman burtoniano, Michael Keaton, a quelli resi, di film in film, sempre più tondi e in rilievo mediante un accurato ed incisivo make-up smokey di Helena Bonham Carter.

Come i fan di Burton già sanno, nell’incipit il regista è solito introdurre i temi principali del film: infatti, nelle prime scene, ci viene mostrata l’inesauribile riproduzione in serie di cartoline raffiguranti gli infelici “orfani” dei dipinti di Margaret. Il congegno meccanico, instancabile, sputa fuori una cartolina dietro l’altra, senza sosta e, man mano che si forma il plico di copie identiche tra loro, sempre uguali, avvertiamo il dissolvimento di quell’aurea che rende qualcosa un’opera d’arte, e la vediamo tramutarsi in merce.
Il film si apre con una citazione di Andy Wahrol, padre della pop art:

“Se piace tanto alla gente vuol dire che un valore artistico ci dev’essere. Se piace non può essere brutto”.

Le tele malinconiche di Margaret, intrise di sentimentalismo ed espressività, vengono stroncate dalla critica di settore che le reputa inaccettabilmente kitsch, ma riscuotono un gran successo popolare.
Da qui, nasce un quesito universale: è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace?
L’arte è qualcosa di personale, che nasce da dentro, che esteriorizza qualcosa che avviene dentro di noi, di cui possiamo essere più o meno consci. Come la stessa Margaret sostiene nel film, “l’arte è personale”, soggettiva come la sua bellezza, e per questo merita rispetto. È il frutto di un’ispirazione che non si può spiegare: qualcosa che la pittrice non riesce ad esporre neanche allo scaltro marito, Walter Keane (Christoph Waltz). Walter Keane è un istrionico imbroglione, con uno spiccato senso del marketing e velleità artistiche, ben lontane dall’essere vere e proprie capacità; eppure una dote ce l’ha, ed è l’abilità nell’uso di strategie di vendita e promozione all’avanguardia per quegli anni, tra i Cinquanta e i Sessanta. Walter s’insinua nella vita di Margaret e, per un decennio, si prende il merito dei suoi quadri, nascondendosi dietro il triste dato di fatto che “l’arte fatta da donne non vende”. Lo scaltro e carismatico venditore dà vita ad una geniale campagna pubblicitaria sfruttando appieno i media – un’assoluta novità per quegli anni – e riproducendo in larga scala, le copie serigrafate dei quadri di cui aveva assunto piena potestà. Margaret, ed il suo triste fanciullo interiore, soccombono a quell’affascinante e fittizio pittore di strada, riducendo la propria arte intimista al buio di uno stanzino troppo piccolo per contenere un segreto così grande.
A questo punto una domanda è lecita: Margaret avrebbe raggiunto l’apice del successo senza lo spirito imprenditoriale del marito? Probabilmente no, perciò il merito del successo di un prodotto artistico dev’essere riconosciuto all’autore dello stesso, o alle capacità del promotore / venditore?

Quello dei Keane è un rapporto disfunzionale, di reciproca e malsana dipendenza: lei, icona degli anni Cinquanta, pettinata alla Marilyn Monroe, posata e delicata, umiliata da un marito dall’ego ingombrante; lui, geniale ed iperbolico, quanto stucchevole e prepotente. Burton tratta questi due personaggi da un’ottica particolare, si pone a metà strada da l’autenticità e la mistificazione: com’egli stesso sostiene:

“Questo è il bello di dare forma a diversi personaggi. Ti identifichi con tutti, anche se te ne vergogni. Ci sono aspetti di Margaret in cui mi riconosco, ma sfortunatamente mi identifico anche con alcuni aspetti di Walter, i peggiori. Nei grandi occhi della Keane rivedo il mio lato più oscuro”.

Nonostante la maggior parte degli spettatori di Big Eyes abbia definito questo film distante dalla poetica burtoniana, incapaci di cogliere cenni autobiografici del regista, risulta palese agli occhi dei più attenti, che Burton in questo film c’è, eccome. Margaret è un outsider chiaramente burtoniano, tormentata e sensibile, con gli occhi ingranditi dal sentimento e non dal mascara.


Non importa se siamo abituati ad un Tim Burton dark, dalle atmosfere cupe ed i colori spenti, seppure per questo film abbia scelto di usare tutta la sua tavolozza di colori pastello, non si è risparmiato di creare contrasti, sottili ma ben distinguibili. Innanzitutto i colori vivaci delle casette, tutte uguali e dai colori tenui – come quelle della provincia ipocrita e perbenista di Edward mani di forbice – o della sfavillante villa in cui vivono i Keane, con tanto di piscina e angolo bar, sono in netto contrasto con lo stato d’animo dei personaggi. Burton ci mostra il lato oscuro delle persone in tinte chiare e satinate, ma continua ad anteporre il binomio oscurità-sincerità, a colore satinato-finzione, e questo è palese soprattutto dalla figura della migliore amica di Margaret, DeeAnn (Krysten Ritter), sincera, forse anche troppo, e sempre vestita in nero.

“È come un miraggio: da lontano vedi una pittrice, poi ti avvicini e non vedi più niente”

Margaret è una vittima, non solo dell’autoritarismo del marito, ma anche del maschilismo del suo tempo. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, le donne iniziarono a manifestare la volontà di conquistarsi il proprio spazio nel mondo, sociale, economico e personale, ed avere pari diritti degli uomini. In quegli anni veniva sancito il diritto al voto per le donne e la parità salariale, due notevoli traguardi per l’emancipazione femminile. In linea con questo spirito rivoluzionario, arriva un momento in cui Margaret capisce che è giunta ad un limite e scappa dal marito, trasferendosi alle Hawaii insieme alla figlia. In quest’isola felice, l’incontro con due sorridenti Testimoni di Geova e la sua conversione religiosa sarà decisivo per farle trovare il coraggio di rivendicare al mondo intero la propria autorialità.
Il film epiloga in tribunale, dove la pittrice dimostra a tutti l’ipocrisia del marito e ottiene un risarcimento di quattro milioni di dollari. I titoli di coda c’informano che Margaret è tutt’oggi un’influente ed iconica pittrice, mentre Walter è giunto al termine della sua esistenza, senza mai aver ammesso la verità.

Amy Adams e Christoph Waltz, entrambi candidati agli Oscar, hanno sicuramente insaporito la storia, nonostante le malelingue abbiano definito lei anonima e lui troppo caricaturale, macchiettistico.
Waltz è una rivelazione, definito da molti “un’adorabile carogna”, per via della sua peculiarità di interpretare personaggi che, a loro volta, vivono un ruolo, una menzogna. Spesso nei panni di sedicenti imbonitori, inclini all’arte della manipolazione, Waltz dimostra nei panni di Walter Keane tutta la sua espressività e teatralità. Amy Adams, invece, è descritta da Burton in queste frasi:

“Quello che ho trovato fantastico in Amy è stato che, guardandola, era possibile percepire una vasta gamma di emozioni in lei. Senti questa sorta di conflitto interiore, senza che lei faccia niente. Lo senti solo guardandola. Trovo questo tipo di attori straordinari”.