Il Futuro è già scritto – X-Men: Giorni di un futuro passato

Titolo originale: X-Men: Days of Future Past
Regia: Bryan Singer
Sceneggiatura: Simon Kinberg
Soggetto: Simon Kinberg, Matthew Vaughn, Jane Goldman, Chris Claremont, John Byrne, Stan Lee, Jack Kirby
Fotografia: Newton Thomas Sigel
Montaggio: John Ottman
Scenografia: John Myhre
Costumi: Louise Mingenbach
Cast: Hugh Jackman, Patrick Stewart, Ian McKellen, Halle Berry, James McAvoy, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Nicholas Hoult, Peter Dinklage, Shawn Ashmore, Ellen Page, Kelsey Grammer
Produzione: Lauren Shuler Donner, Bryan Singer, Simon Kinberg, Hutch Parker
Nazionalità: U.S.A.
Anno: 2014
Durata: 131′

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A cura di Alexia Altieri

Ritorno, in grande stile, di Bryan Singer, regista dei primi due capitoli della saga dedicata agli X-Men, ovvero X-Men del 2001 e X-Men 2 del 2003.

Singer torna, quindi, dietro alla macchina da presa e riprende a muovere le fila dei suoi mutanti. Nella scena finale del capitolo precedente della saga, Wolverine – L’Immortale del 2013, avevamo visto Logan ricongiungersi con Charles Xavier, con a seguito Erik Lehnsherr aka Magneto, all’aeroporto; Magneto l’aveva messo in guardia su un’invenzione fatta dagli uomini che avrebbe potuto annientare per sempre la razza mutante.

A seguito di questo monito, il film di Singer si apre su uno scenario che si fa allegoria del caos. Ci ritroviamo catapultati in un futuro distopico, in cui giganti robot, chiamati sentinelle, stanno annientando, uno dopo l’altro, tutti i mutanti. Per trovare una soluzione a questa guerra che sta per concludersi a favore delle sentinelle, il Professor X (Patrick Stewart) e Magneto (Ian McKellen) preparano un piano: rispedire Wolverine (Hugh Jackman) nel passato, grazie agli straordinari poteri di Kitty Pryde, in modo da impedire l’accadimento dell’evento scatenante di questo futuro apocalittico.

Questo, il prologo di un film in cui Singer dimostra di essere un capace regista d’azione. Il regista, qui, ci da solo un assaggio degli incredibili effetti speciali di cui è disseminato il film. A tal proposito, il punto più alto, di pura creatività e humour in perfetto stile Marvel, lo abbiamo nella scena in cui Pietro Maximoff aka Quicksilver (Evan Peters) fa da protagonista. Evan Peters descrive il suo personaggio come qualcuno che “parla veloce e si muove veloce. Tutto il resto intorno a lui è molto lento, è come se fosse sempre al bancomat in attesa che il tizio di fronte a lui finisca l’operazione”.

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Adolescente dai capelli grigi, capace di superare la velocità del suono, dopo esser riuscito a far evadere il Magneto del passato (Francesco Prando) dal carcere di massima sicurezza nascosto all’interno del pentagono, si ritaglia un momento extra-diegetico tutto per sé. Nello spazio di tempo che i proiettili sparati dai due uomini in divisa, nel tentativo di boicottare l’evasione di Magneto, impiegano per raggiungere l’obiettivo, Pietro, con le cuffie alle orecchie, corre sulle pareti della stanza (che ha le sembianze di una cucina), assaggia le pietanze che trasbordano dalle pentole, induce le guardie e darsi dei cazzotti da soli ed, infine, sposta la traiettoria dei proiettili salvando Logan, Charles ed Erik. Uno straordinario slow motion, una parentesi carica di humour e visivamente strepitosa quanto incredibile. Questo momento funge anche da eccelsa introduzione all’ennesimo spin-off Marvel, poiché il personaggio di Quicksilver comparirà nel prossimo The Avengers.

Una volta libero, Magneto ritrova, relativamente, l’antica amicizia che lo legava al giovane Charles (James McAvoy) e, una volta presa coscienza di ciò che avverrà nel futuro, pare voler aiutare Logan a boicottare l’accensione della miccia che farà esplodere una sanguinaria guerra senza scampo per la loro specie: l’uccisione di Bolivar Trask (Peter Dinklage), acerrimo avversatore dei mutanti, da parte di Raven Darkholme aka Mystica (Jennifer Lawrence). Scienziato milionario, accecato dall’odio razziale per i mutanti, Trask apparirà, quasi sicuramente, anche in X-Men: Apocalypse. Il già annunciato prossimo capitolo della saga, che vedrà la luce dal 27 maggio 2016, nuovamente affidato alla regia di Singer.

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Io ho visto tante guerre, ma non ho mai visto nulla del genere. E tutto comincia da lei“.

Racchiusa in queste parole del Professor X c’è tutta la trama di un film che ha dell’epico, dotato di un impatto visivo a dir poco stupefacente, che attraversa tre lustri  di X-Men cinematografici, stravolgendo completamente il continuum temporale. Emblematico, in questo senso, il face-to-face tra il giovane Charles Xavier del passato e la sua versione futura.

Singer non si fa mancare niente, dall’immaterialità dell’irrealtà che domina questa trama alla tangibilità di un preciso periodo storico, gli anni ’70 in cui gli Stati Uniti d’America, vivevano nell’incertezza di un mondo in disordine ed in continuo mutamento: dalla guerra del Vietnam, all’uccisione di Kennedy, alla guerra fredda. A tutto ciò, Singer aggiunge la presa coscienza dell’esistenza di una razza mutante in grado di causare il genocidio degli umani.

Una sceneggiatura a più livelli, incastrati tra loro con inossidabile coerenza. Lo stesso produttore, nonché sceneggiatore, Simon Kinberg, sostiene che questo film, basato sul già consolidato tema del viaggio nel tempo, sia in parte influenzato da L’uomo che visse nel futuro (George Pal, 1960), Terminator (James Cameron, 1984), Ritorno al futuro (Robert Zemeckis, 1985) e Looper – In fuga dal passato (Ria Johnson, 2012). Facendo riferimento a James Cameron, è interessante sapere che la 20th Century Fox, nel realizzare questo film, ha dato vita al proprio secondo maggior investimento dopo Avatar.

Singer affida al personaggio di Wolverine il ruolo di “ponte” tra un futuro dispotico e distopico ed un passato vintage, in cui tutto ancora deve avere origine.

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    Immortale e spavaldo, si dimostra, in questa pellicola, particolarmente maturato e saggio, assolvendo un vero e proprio ruolo di guida nei confronti di colui che è stato a sua volta un mentore per lui nella reale consequenzialità temporale della storia, il Professor X. Nonostante Wolverine abbia, quindi, un ruolo chiave nella storia, X-Men: Giorni di un futuro passato, è un vero e proprio film corale, in perfetto stile The Avengers, che si fa celebrazione del franchise dei supereroi mutanti, qui riuniti tutti insieme a combattere contro una comune minaccia.

E, alla fine, riescono nell’impresa. Logan si risveglia in un futuro decisamente mutato: la scuola del Professor X è ricca di studenti ed insegnanti, tra cui ricompaiono molti degli X-Men che avevamo visto morire nei film precedenti, tra cui spicca Jean Grey (Famke Janssen). Wolverine è l’unico che ha memoria del triste futuro che avrebbe potuto esistere e si appresta a raccontarlo a Charles. Singer conclude, quindi, questo film con ulteriori punti interrogativi, a cui riusciremo a dare risposta solo nei prossimi capitoli della saga.

In ultima istanza, arriviamo alla classica scena post credits del film. Qui, un ragazzo alza le mani al cielo e, con la forza del pensiero, costruisce una piramide. Sullo sfondo, in controluce, quattro cavalieri e, tutt’intorno, un coro di voci inneggia un nome: “En Sabah Nur“. Simon Kinberg, svela che quel personaggio è lo stesso Apocalypse, villain protagonista del prossimo film sugli X-Men, già citato in precedenza. In realtà il film non verrà ambientato nell’antico Egitto e l’attore non sarà così giovane. In ogni caso, teniamoci pronti ad ulteriori ed entusiasmanti risvolti.

L’amore che salvò il Principato di Monaco dalla guerra

Titolo originale: Grace of Monaco
Regia: Olivier Dahan
Sceneggiatura: Arash Amel
Fotografia: Eric Gaultier
Montaggio: Olivier Gajan
Scenografia: Dan Weil
Costumi: Gigi Lepage
Cast: Nicole Kidman, Tim Roth, Milo Ventimiglia, Parker Posey, Paz Vega, Frank Langella, Derek Jacobi, Geraldine Somerville, Roger Ashton-Griffiths
Produzione: Arash Amel, Uday Chopra, Pierre-Ange Le Pogam
Paese di produzione: U.S.A., Belgio, Italia, Francia
Anno: 2014
Durata: 103′

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A cura di Alexia Altieri

Olivier Dahan ci racconta la metamorfosi della diva di Hollywood Grace Kelly, beniamina di Alfred Hitchcock che la ribattezza con l’ossimoro Ghiaccio Bollente, a sottolineare la bellezza allo stesso tempo eterea e sensuale ch’ella sprigionava sul grande schermo, in Grace di Monaco, la principessa volitiva e compassionevole che sposò il principe Ranieri.

Questo film non vuole essere una vera e propria biopic, piuttosto un focus sulla figura, più che sulla vera storia, di Grace di Monaco, in particolare sul modo in cui ella inventa la principessa moderna. Questo è ciò che sostiene il regista di La Vie en Rose (2007), in risposta alle critiche mosse dalla famiglia Grimaldi, i quali l’accusano della mancanza di veridicità degli eventi ch’egli riporta nel suo film.

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Nicole Kidman risulta perfetta nel ruolo della controversa Altesse di Monaco, dalla bellezza algida, i sorrisi sinceri e gli sguardi infelici. L’attrice, ça va sans dire, ha una certa familiarità con l’interpretazione di personaggi dotati di un notevole spessore psicologico, protagonisti di film dalla matrice drammatica. Per citarne qualcuno: il perverso e sinistro Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999), il drammatico musical del Moulin Rouge! (Baz Luhrmann, 2001), o lo spiritico thriller The Others (Alejandro Amenábar, 2001).

Anche in Grace di Monaco, lo sguardo della Kidman si riempie, dapprima, di una profonda infelicità: la sua favola, al fianco del suo principe azzurro, perde magia; il sinuoso castello in cui abita si tramuta, via via, in una sorta di gabbia d’oro, che tiene prigioniero il suo corpo ed il suo spirito. Appassionata e misericordiosa, Grace non riesce ad entrare in sintonia con la superficialità e l’ipocrisia delle persone frivole che abitano quel mondo, schiave del protocollo, tanto indifferenti davanti alla povertà quanto ricche di entusiasmo per l’organizzazione di balli reali, con cui condivide soltanto la mera etichetta.

Perciò quando Hitchcock le propone di tornare ad Hollywood come attrice protagonista del suo prossimo film, intitolato Marnie, Grace si ritrova a dover compiere una difficile scelta tra il richiamo dell’arte, della sua passione per il cinema ed, in un certo senso, della sua stessa libertà, ed il suo dovere politico, in quanto principessa, e familiare. In questo frangente, che si rivela poi il nodo centrale dell’intero film, Grace è vittima di una forte crisi coniugale e d’identità, da cui uscirà con l’aiuto di Padre Francis Tucker (Frank Langella), il quale le ripete, più volte, che il “ruolo” più importante di tutta la sua vita, ch’ella dovrà per sempre interpretare, è proprio quello di principessa, di madre e di moglie. Così Grace decide d’imparare alla perfezione la storia del suo principato, il protocollo, le buone maniere, ricomponendo, progressivamente, la frattura che l’aveva fatta smarrire. Rinuncia, così, alla parte offertale da Hitchcock, e torna ad essere la principessa amata dal popolo, dalle azioni filantropiche, e moglie devota di Ranieri (uno straordinario Tim Roth).

ImageE sarà proprio grazie alla Principessa Grace, che Ranieri riuscirà a risolvere la disputa con il presidente francese Charles De Gaulle, che fa da sfondo all’intera vicenda.

De Gaulle, prossimo all’invasione del principato, verrà favorevolmente colpito dal discorso che la Principessa terrà in occasione del ballo della Croce Rossa, in cui ella si fa portavoce della forza smisurata dell’amore, in antitesi all’odio generato da chi sceglie  di risolvere i problemi con la guerra.

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Dahan affida, poi, a delle didascalie il compito d’informarci sugli sviluppi futuri della storia.

Questa strategia, a mio avviso, rafforza la tesi del regista per cui non realizza questo film con la pretesa di consegnarci un fedele ritratto delle vicende storico-politiche vissute dalla famiglia Grimaldi in quegli anni, quanto piuttosto un’approssimazione della metamorfosi psicologica della protagonista. Emblematiche, a questo proposito, sono le riprese a dettaglio che egli realizza durante i dialoghi della principessa con Padre Francis Tucker, che alternano il primissimo piano di occhi e bocca di Grace, restituendoci la sua instabilità e l’angosciosa ricerca di un equilibrio.

Pertanto gli occhi della Kidman si fanno manifesto autentico delle intenzioni di Olivier Dahan. Tutto il resto, gli sfarzosi gioielli, le acconciature impeccabili, i vestiti preziosi, e gli stessi dialoghi, fungono solo da cornice. E, attraverso questo film, per quanto poco veritiero sia stato definito, il regista fa il proprio commovente encomio alla Principessa Grace di Monaco.

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La lotta per la verità degli West Memphis Three

 

Titolo originale: Devil’s Knot
Regia: Atom Egoyan
Produzione: Elizabeth Fowler, Richard Saperstain, Clark Peterson, Christopher Woodrow, Paul Harris Boardman
Sceneggiatura: Paul Harris Boardmann, Scott Derrickson
Soggetto: Mara Leveritt
Fotografia: Paul Sarossy
Montaggio: Susan Shipton
Scenografia: Phillip Barker
Cast: Reese Whitherspoon, Colin Firth, Mireille Enos, Dane DeHaan, Kevin Durand, Stephen Moyer, Bruce Greenwood
Nazionalità: U.S.A.
Anno: 2013
Durata: 114′

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A cura di Alexia Altieri

 

Con il film “Devil’s Knot – Fino a prova contraria”, Atom Egoyan riapre il caso dei Tre di West Memphis, i tre ragazzi vittime del più clamoroso errore giudiziario degli Stati Uniti.

La storia è nota: nel 1993, a West  Memphis, Arkansas, tre bambini, tre piccoli scout, Christopher Byers, Stevie Branch e Michael Moore, vengono rinvenuti morti, in un canale di scolo a Robin Hood Hills, meglio noto con il nome di Tana del Diavolo. I corpicini delle vittime, portavano su di sé i segni di una brutale violenza. La polizia del posto, dopo brevi e superficiali indagini, arresta tre adolescenti del luogo, Damien Echols, Jessie Misskelley (un minorato mentale) e Jason Baldwin, i quali si differenziavano da quell’informe e bigotta massa di provinciali per la loro singolare abitudine a vestire, costantemente, in nero e ad ascoltare musica heavy metal. Per questo loro lato dark e per un’attitudine all’autolesionismo, i tre ragazzi vengono immediatamente tacciati di satanismo, in un’area culturale abitata da una grande percentuale di Protestanti.

I tre adolescenti, trascinati in tribunale, vengono condannati a pene esemplari: l’ergastolo per Misskelley e Baldwin, la pena di morte per Echols. L’opinione pubblica si spacca immediatamente: se, da una parte, molti si convincono della colpevolezza dei tre ragazzi, altrettanti credono nella loro innocenza. Primo fra tutti Ron Lax (Colin Firth), un investigatore privato della zona, dubita di una verità che tutti danno per scontata, malgrado l’obiettiva assenza di prove concrete.

Per la realizzazione di questo film, che aderisce completamente al reale svolgimento dei fatti, e quindi si erge a docu-fiction, il canadese Atom Egoyan prende spunto dal libro di Mara Leveritt, che titola “Devil’s Knot: The True Story of the West Memphis Three”.

Il film di Egoyan epiloga sulla sopracitata condanna inferta ai tre ragazzi, lasciando poi a dei trafiletti il compito di informarci sugli sviluppi che ha avuto la storia.
Ed è così che è andata a finire. Subito dopo la condanna, sull’onda dell’indignazione pubblica, nasce un movimento popolare a favore della scarcerazione dei “West Memphis Three”, una sorta di comitato di difesa dei tre ragazzi che chiede la revisione dell’indagine e del processo (“Free the West Memphis Three!”). Vengono organizzati concerti di beneficenza, scritti libri, e molti personaggi appartenenti allo star system si schierano apertamente dalla loro parte, tra cui Johnny Depp.

Nel luglio 2007, dopo 14 anni, ci fu un clamoroso colpo di scena: le nuove prove del DNA (non disponibili ai tempi del triplice delitto) prodotte dalla difesa hanno rivelato che nessuno dei tre, ormai non più, adolescenti era presente sul luogo del delitto.

Solo nell’agosto del 2011viene finalmente annunciato che, dopo 18 anni di ingiusta detenzione, Damien Echols, Jason Baldwin e Jessie Misskelley, sono ufficialmente uomini liberi. Il giudice ha deciso il loro rilascio in base ad un complicato procedimento legale che si basa su un accordo tra le parti, noto come ”Alfrod plea”, un tipo di patteggiamento in cui l’imputato, pur mantenendo la propria innocenza, riconosce che l’accusa ha abbastanza prove da convincere una giuria, e si dichiara colpevole, in modo da proteggere lo stato dell’Arkansas da un’eventuale azione legale dei tre per un risarcimento qualora in un prossimo processo dovessero essere giudicati innocenti.

Insomma, un bizzarro e clamoroso decorso giudiziario, che Egoyan sceglie di rimettere all’attenzione del pubblico, attraverso questo film che, prima di ogni altra cosa, si auto-definisce come encomio alla memoria dei tre bambini ingiustamente strappati alla vita, Christopher Byers, Stevie Branch e Michael Moore.

Un fidanzato per mia moglie: specchio di una società sregolata

Regia: Davide Marengo
Produzione: Beppe Caschetto
Sceneggiatura: Francesco Piccolo, Davide Marengo
Scenografia: Paola Comencini
Costumi: Eva Coen
Cast: Paolo Kessisoglu, Geppi Cucciari, Luca Bizzarri, Dino Abbrescia, Ale e Franz
Nazionalità: Italia
Anno: 2014
Durata: 97′

Un fidanzato per mia moglie di Davide Marengo

A cura di Alexia Altieri

 

Un fidanzato per mia moglie di Davide Marengo è una commedia molto attuale, in particolare nel toccare temi come la disoccupazione ed  il triangolo amoroso.

Nonostante sia un film dal tono leggero e spensierato, Marengo tratta molti luoghi comuni sull’italiano medio di oggi.
Innanzitutto, tutta la narrazione si dipana attorno a quello che è il nodo centrale della vicenda, ovvero un matrimonio problematico. Già dalle prime scene, in cui assistiamo al matrimonio vero e proprio tra Simone Fortini (Paolo Kessisoglu) e Camilla Ledda (Geppi Cucciari), ci è chiaro chi, tra i due, come si suol dire, porta (letteralmente) i pantaloni in casa. Camilla Ledda è una speaker radiofonica cagliaritana che, una volta sposata, si trasferisce a Milano dal marito.

Ancora una volta vediamo dipinta Milano, oltre che come capitale della moda, come la capitale del vizio. L’amico, nonché superiore in termini lavorativi, di Simone, Carlo Valli (Dino Abbrescia), è incarnazione di uno stile di vita totalmente libertino.
Eterno Peter-Pan ed eterno playboy, Carlo si concede continue “scappatelle” extraconiugali, passa le serate a giocare a basket con gli amici, piuttosto che a casa con la propria famiglia e, in occasione del suo compleanno, organizza un disinibito party in maschera. Complice di questa vita completamente sregolata e priva di responsabilità, è anche la stessa moglie di Carlo, che incontriamo per la prima volta durante il suddetto party. In abiti succinti, la donna va a controllare che la loro figlioletta non sia stata svegliata dalle urla e dagli schiamazzi, per poi tornare al singolare festino casalingo. Carlo e sua moglie si fanno, quindi, prototipo di “coppia moderna”, poligama, dagli orizzonti molto aperti e priva della benché minima traccia del tradizionale valore della famiglia.

Se Carlo Valli è l’italiano medio odierno, Simone e Camilla sono la classica coppia sposata, alle prese con una fin troppo classica crisi che li porta dapprima dall’analista, e poi di fronte al giudice.
I loro problemi fanno colazione con loro, si ripresentano durante la giornata, nelle varie chiamate che Camilla fa a Simone, mentre quest’ultimo è a lavoro, e permangono fino a sera, quando il loro unico argomento di dialogo rimane ancorato al: “Vuoi qualcosa da mangiare?”. E la causa principale di questo è, ancora una volta, l’assenza di lavoro. Camilla è disoccupata e le sue giornate sono monocorde, banali, frustranti. E sfoga questa frustrazione sul marito, lamentandosi di tutto e di tutti.
Se da una parte Marengo ci presenta i luoghi comuni della società odierna, dall’altra vi muove contro una feroce critica, proprio attraverso la figura di Camilla. La donna si scaglia contro chi crede alle coincidenze o negli oroscopi, ma anche contro i media, i giornali che drammatizzano ogni cosa e gli show televisivi che ormai sono privi di ogni fondamento logico. Insomma, nel corso del film, Camilla “parla controvento”, differenziandosi dalla massa e disprezzando il conformismo. Non è un caso che la sua voce rivoluzionaria echeggi attraverso il mezzo radiofonico, da sempre medium di protesta e verità.

Il Falco (Luca Bizzarri) è “l’altro”, playboy misterioso, abituato ad avere un posto privilegiato sulle copertine delle più importanti riviste scandalistiche. Sarà, forse, proprio il fatto che Camilla non abbia mai sentito parlare di lui, ignorando completamente il gossip che lo univa alla, più volte nominata, figlia di Pelé, ciò che l’ha fatto innamorare di lei?
Al Falco si rivolge proprio Simone, il quale, ormai convinto a volersi separare dalla moglie, non trova il coraggio di dirglielo e quindi assolda il “playboy professionista” per far in modo che sia lei stessa a chiedere la separazione. Si fa strada, così, un improbabile e non duraturo triangolo amoroso. Il proseguo della storia diventa, poi, prevedibile, com’anche l’epilogo.

Commedie come questa non sono mai (o quasi) caratterizzate da trame intricate o colpi di scena, ma portano in sé vari spunti di riflessione. Innanzitutto, quando si parla di società odierna e coppie moderne, non può mancare anche la presenza della coppia omosessuale. Ernesto (Francesco Villa) e Gianluca (Alessandro Besentini) sono la coppia (a tutti gli effetti) di amici di Carlo e Simone. Seppure, anche questo tema, dà la parvenza di essere soltanto sfiorato, in realtà ci restituisce un preciso punto di vista dell’autore, ovvero che in una società in cui un matrimonio basato sull’infedeltà viene reputato normale, è improprio essere omofobi. Infatti, nel film, Ernesto e Gianluca sono molto più “coppia” di quanto lo siano Carlo e sua moglie: a sottolineare quest’aspetto sarà anche l’ultima sequenza che Marengo gli riserva, in cui li vediamo di fronte allo stesso analista di Simone e Camilla, alle prese con una normale crisi di coppia.

Pertanto, a mio avviso, la morale racchiusa in un film così carico di comicità e di comici (Luca & Paolo, Ale & Franz e Geppi Cucciari), è semplice: in amore non esistono regole, se non quella di amarsi, nonostante le avversità e le diversità.