Titolo originale: The Giver
Regia: Phillip Noyce
Sceneggiatura: Michael Mitnick
Soggetto: Lois Lowry
Fotografia: Ross Emery
Scenografia: Ed Verreaux
Musiche: Marco Beltrami
Cast: Brenton Thwaites, Jeff Bridges, Meryl Streep, Alexandre Skarsgard, Katie Holmes, Odeya Rush, Taylor Swift, Emma Tremblay, Cameron Monaghan, Charlotte Salt
Produzione: Jeff Bridges, Neil Koenigsberg, Nikki Silver
Paese di Produzione: U.S.A.
Anno: 2014
Durata: 97′
A cura di Alexia Altieri
The Giver – Il mondo di Jonas, diretto da Phillip Noyce, è l’adattamento cinematografico del best seller per ragazzi, fantascientifico distopico di Lois Lowry. Romanzo che ha avuto un grande seguito, tanto da essere ancora spesso adottato come materiale didattico nelle scuole americane in cui non è vietato (per via dei temi forti che tratta).
Pubblicato nel 1993, The Giver è il primo capitolo della quadrilogia proseguita, poi, con La rivincita – Gathering Blue (2000), Il messaggero (2004) ed Il figlio (2012).
Noyce, a mio avviso, ha reso ben percepibile l’origine letteraria del film, sacrificando l’azione a favore di continui cambi di registro e di tono. Attraverso frammenti, sfumature, suoni, impulsi, il regista comunica direttamente con il nostro inconscio, facendoci vivere, assieme al protagonista, l’intera gamma delle emozioni, forti, primordiali. La vita, che inizia quando una madre colma per sempre il senso di vuoto con cui convive fin dal primo giorno, quello in cui lei stessa regalò il suo primo respiro a chi prima di lei aveva bisogno di tenerla tra le braccia per sentirsi completa. La morte, ingiusta, indotta, imposta. Il dolore, la gioia, la fede e l’Amore.
L’Amore per la vita, per chi ci cresce e per chi cresceremo, per gli amici che ci tradiranno, per l’amico che ci soccorrerà. Per la persona che scegliamo, e per chi ha scelto noi e ci ama da vicino, anche se non sa parlare e non è umano.
Questo film è proprio questo, una moltitudine: il caos di cui necessitiamo.
Sono proprio le emozioni a fare da protagoniste, a reggere interamente la trama. Ciò è esplicitato dalla significativa frase che il donatore (Jeff Bridges) proferisce a Jonas (Brenton Thwaites):
I sentimenti sono più sfuggenti, restano in superficie.
Le emozioni primordiali ti restano dentro. E lasciano un eco.
La storia ha inizio in un futuro distopico, in un mondo letteralmente in bianco e nero, dove vige sovrana la regola della conformità. Tutto ciò che è difforme va congedato.
The Giver entra, quindi, a far parte di quel lungo filone fantascientifico (in cui rientrano senza dubbio la saga di Hunger Games, Elysium, Divergent, Upside Down) che tratta, nello specifico, di un’ipotetica società futura in cui lo straordinario progresso tecnologico si paga con un preoccupante regresso sociale.
Se in Hunger Games, in Elysium ed in Upside Down ci troviamo di fronte ad una società nettamente divisa, in cui i più abbienti vivono un’eterna giovinezza sulle spalle dei più poveri (nel caso di Hunger Games gli Strateghi giocano con la vita degli abitanti dei vari distretti), in Divergent, come in The Giver, l’essere diversi costituisce un pericolo concreto.
È impossibile non percepire i richiami al romanzo distopico per eccellenza, ovvero Nineteen Eighty-Four – 1984 di George Orwell (1949), e sicuramente anche a Brave New World di Aldous Huxley (1932), in cui il Nuovo Mondo, la nuova società, è creata secondo i principi della produzione in serie, applicati in origine da Henry Ford nella fabbricazione della sua Modello T.
Insomma, nonostante l’arco temporale che intercorre tra il romanzo orwelliano e le recenti pellicole sopracitate, il cinema continua a restituirci , a suo modo, un’anteprima di un futuro in cui l’aspetto preponderante è quello gerarchico.
Ogni società è sistematicamente divisa in distretti, o superstati, o fazioni (cambia il termine, ma non il significato), il cui vertice (Big Brother, Consiglio di Anziani, Strateghi, ricchi, ..) ha pieno controllo sugli abitanti che vengono, perlopiù, considerati come meri componenti di una catena di montaggio.
Un ordine che, in qualche modo, ha a che vedere con la nostra società odierna, in cui i politici, i potenti hanno, seppur in maniera meno manifesta, pieno controllo delle nostre vite e delle nostre scelte.
Quando la gente ha la libertà di scegliere, fa scelte sbagliate.
Queste parole, proferite dal Sommo Anziano (Meryl Streep), esplicitano totalmente un altro aspetto che s’impone in ogni ipotetico futuro distopico: la totale privazione della libertà di arbitrio.
Jonas abita un mondo in cui tutto è incolore, uniforme, perfettamente simmetrico ed ordinato, quanto agghiacciante. Non esiste lo scorrere del tempo, non c’è storia, non esistono animali, sogni, intenzioni.
In particolare, la mancanza degli animali mi ha lasciato inizialmente perplessa. Poi, riflettendoci, sono arrivata alla mia personale conclusione: in una società in cui gli abitanti vengono privati delle loro emozioni attraverso l’obbligatoria iniezione del mattino, non possono vivere degli esseri viventi la cui natura è soprattutto istinto e primordialità.
Un altra parola chiave è controllo. I Sommi Anziani hanno il controllo su tutto. Tutto dev’essere misurato: le parole, le reazioni, l’affetto. E, nonostante l’intenzione alla base di questo progetto fosse positiva, ovvero eliminare per sempre sentimenti come odio, dolore e invidia per creare un mondo perfetto, è stato ignorato un aspetto imprescindibile: il segreto della vita sta proprio nell’imperfezione. Ed è così, che cancellando violenze e tragedie dell’umanità, si è perso anche l’incanto e la passione necessari per sentirsi vivi.
Siamo, pertanto, in presenza dell’ennesimo mondo di plastica, platonico, finto. Com’era finto il set televisivo di The Truman Show (Peter Weir, 1998), in cui il protagonista (Jim Carrey) credeva realmente di abitare.
Nel torpore delle sue giornate incolori e delle sue notti senza sogni, Jonas inizia a capire di essere diverso dagli altri, di avere un dono speciale, quello di sentire.
E, per via di questa sua particolarità, gli viene assegnato il delicato incarico di Custode delle Memorie dell’Umanità. Sarà il Donatore (da qui il titolo The Giver) a tramandare a Jonas emozioni e ricordi che avrebbero cambiato per sempre il suo modo di vedere le cose. Difatti, più Jonas acquisisce memoria di un passato che era stato cancellato, più il suo mondo acquista nuovi colori.
Un ulteriore link potrebbe essere quello con il film Se mi lasci ti cancello (Michel Gondry, 2004): poiché attraverso la memoria tramandiamo noi stessi, cancellare un ricordo o parte del nostro passato, potrebbe farci smarrire la strada.
Violente e vive, giorno dopo giorno, le emozioni scoppiavano nel cuore del giovane Jonas.
Sentì lo strazio delle vite spezzate dalla guerra, l’amaro delle ingiustizie e per un attimo ebbe il desiderio di scappare, di tornare alla propria vita ovattata. Ma poi, un giorno, conobbe l’amore.
E fu quel giorno che decise che valeva la pena ribellarsi.
Siamo di fronte ad un film forte, che fa pensare. Non mancano nemmeno argomenti delicati come l’eutanasia, che in questo contesto viene chiamata più semplicemente “congedo“.
Mi ripeto, siamo di fronte ad una pellicola che agisce ad un livello più profondo, più inconscio e, probabilmente, non raggiunge i cuori di chi va al cinema per guardare uno spettacolo d’intrattenimento e non anche per guardarsi dentro.
In conclusione, Jonas ed il piccolo Gabriel, che come lui riesce a sentire, riescono ad oltrepassare il confine e ad arrivare in un mondo in cui esiste la neve, la slitta, la musica, la famiglia.
Il film termina con un finale aperto, seppur intuibile, lasciando allo spettatore il compito di tirare le fila del discorso iniziato dal narratore e di completarne il disegno, nell’attesa di confrontarlo, poi, con il seguito che qualcun altro ha già scritto per noi.